Massimo Viazzo
L’errore che spesso si commette quando ci si pone di fronte alle opere, mi sia concesso il termine, «pre-wagneriane» di Richard Wagner è ascoltarle pensando al «poi». Die Feen, prima opera di Wagner, andrebbe presa, senza pregiudizi e preconcetti, per quello che è, e cioè una Zauberoper scritta nell’Ottocento poco dopo il quarto di secolo (1834, per la precisione) tratta da «La donna serpente» di Carlo Gozzi, ricucita su misura per l’occasione dallo stesso Wagner. Ne più, ne meno! Un’opera bella, non scevra di sorprese e che regge benissimo la prova del palcoscenico. Un’opera per la quale i wagneriani più incalliti dovrebbero smetterla di mostrare imbarazzo o fastidio…
Anche Mark Minkowski deve averla pensata così in questa che è la prima rappresentazione scenica in Francia. Le sue Fate non guardano certo in avanti. Il suono degli affiatatissimi Musiciens du Louvre terso, limpido, indifferente a facili edonismi, si è configurato in uno stimolante divisionismo timbrico (quasi «barocco», ed è fin agevole affermarlo quando si parla dei Musiciens). Minkowski ha tentato (riuscendoci) di riposizionare l’opera nel suo contesto storico, ripulendola da quel substrato culturale che è senza forse il principale indiziato della sua stessa rovina (in termini di ricezione e diffusione). Quindi Weber, Gluck e tanto Mozart in queste Fate parigine. Ed espressività, intensità che scaturivano sempre e soltanto dalla pagina scritta (anche se a volte Minkowski ha forzato sul ritmo e sulle dinamiche) in un‘esecuzione sempre viva, varia e tenacemente senza enfasi.
Emilio Sagi ha firmato uno spettacolo convincente, molto colorato, onirico, ispirato esplicitamente all’estetica pop. Elementi scenici ben individuabili e volutamente kitsch (un’enorme rosa adagiata sul palcoscenico, ad esempio, saluta l’entrata di Ada nel primo atto, mentre un lampadario di cristallo sghembo diventa esso stesso palcoscenico privilegiato per la scena della follia di Arindal nel terzo) in uno spazio sostanzialmente vuoto, proiettavano l’azione in un luogo-non-luogo in cui l’atemporalità si imponeva.
Vocalmente parlando le cose non sono parse sempre all’altezza a cominciare proprio dalla coppia dei protagonisti. A loro Wagner richiede già una certa dose di muscoli. L’Ada di Deborah Mayer è invece parsa un po’ pallida, resa con fraseggio inerte e un po’ scomposta in alto. E David Curry ha reso il ruolo del principe Arindal con una voce che mancava sostanzialmente di squillo e che si induriva salendo. Anche Lina Tetruashvili (nei panni di Lora, la sorella del protagonista) pur dotata di un bel timbro da soprano lirico ha denotato qualche disomogeneità nel passaggio di registro. Tra le parti di fianco (qui ancora troppe, ma nelle opere successive Wagner le sfoltirà) citerei soprattutto le vivacissime Salomé Haller ed Eduarda Melo (le fate Farzana e Zemina) e il Gernot teatralissimo di Laurent Naouri.
Siparietto finale: Minkowski è salito sul palco a raccogliere i meritati applausi con la partitura dell’opera sotto braccio, ben stretta, dando l’impressione di temere che qualcuno gliela portasse via. Che in Francia si rubino spartiti? Indagheremo…
Anche Mark Minkowski deve averla pensata così in questa che è la prima rappresentazione scenica in Francia. Le sue Fate non guardano certo in avanti. Il suono degli affiatatissimi Musiciens du Louvre terso, limpido, indifferente a facili edonismi, si è configurato in uno stimolante divisionismo timbrico (quasi «barocco», ed è fin agevole affermarlo quando si parla dei Musiciens). Minkowski ha tentato (riuscendoci) di riposizionare l’opera nel suo contesto storico, ripulendola da quel substrato culturale che è senza forse il principale indiziato della sua stessa rovina (in termini di ricezione e diffusione). Quindi Weber, Gluck e tanto Mozart in queste Fate parigine. Ed espressività, intensità che scaturivano sempre e soltanto dalla pagina scritta (anche se a volte Minkowski ha forzato sul ritmo e sulle dinamiche) in un‘esecuzione sempre viva, varia e tenacemente senza enfasi.
Emilio Sagi ha firmato uno spettacolo convincente, molto colorato, onirico, ispirato esplicitamente all’estetica pop. Elementi scenici ben individuabili e volutamente kitsch (un’enorme rosa adagiata sul palcoscenico, ad esempio, saluta l’entrata di Ada nel primo atto, mentre un lampadario di cristallo sghembo diventa esso stesso palcoscenico privilegiato per la scena della follia di Arindal nel terzo) in uno spazio sostanzialmente vuoto, proiettavano l’azione in un luogo-non-luogo in cui l’atemporalità si imponeva.
Vocalmente parlando le cose non sono parse sempre all’altezza a cominciare proprio dalla coppia dei protagonisti. A loro Wagner richiede già una certa dose di muscoli. L’Ada di Deborah Mayer è invece parsa un po’ pallida, resa con fraseggio inerte e un po’ scomposta in alto. E David Curry ha reso il ruolo del principe Arindal con una voce che mancava sostanzialmente di squillo e che si induriva salendo. Anche Lina Tetruashvili (nei panni di Lora, la sorella del protagonista) pur dotata di un bel timbro da soprano lirico ha denotato qualche disomogeneità nel passaggio di registro. Tra le parti di fianco (qui ancora troppe, ma nelle opere successive Wagner le sfoltirà) citerei soprattutto le vivacissime Salomé Haller ed Eduarda Melo (le fate Farzana e Zemina) e il Gernot teatralissimo di Laurent Naouri.
Siparietto finale: Minkowski è salito sul palco a raccogliere i meritati applausi con la partitura dell’opera sotto braccio, ben stretta, dando l’impressione di temere che qualcuno gliela portasse via. Che in Francia si rubino spartiti? Indagheremo…
Versión en Español
Foto: Die Feen
Credito: Marie-Noëlle Robert.
Foto: Die Feen
Credito: Marie-Noëlle Robert.
El error que frecuentemente se comete cuando se esta frente a las operas, si se permite el termino “pre-wagnerianas” de Richard Wagner es escucharla pensando en el después. Die Feen, primera opera del compositor, debería ser vista, sin prejuicios y preconceptos, por lo que es, una Zauberoper compuesta en el siglo diecinueve, en el año 1834 para ser precisos, que trata sobre “la mujer serpiente” de Carlo Gozzi, en una versión hecha a la medida para la ocasión por el propio Wagner. ¡Ni más, ni menos! Es una opera bella, no libre de sorpresas y que resistió muy bien la prueba del escenario. Una opera por la cual, los wagnerianos mas aferrados deberían dejar de mostrar molestia o fastidio. También Mark Minkowski lo pensó así, en esta, la primera representación escénica de la opera en Francia. Sus “hadas” no miraron hacia adelante. El sonido de sus afianzados Musiciens du Louvre, fue terso, límpido, indiferente a fáciles hedonismos, y se configuró en un estimulante movimiento pictórico timbrico (casi “barroco” y al fin, fácil de afirmarlo cuando se habla de los Musiciens). Minkowski intentó, con éxito, reposicionar la opera en su contexto histórico repuliéndola del sustrato cultural que es quizás la principal causa de su ruina (en términos de aceptación y difusión). Por lo tanto, Weber, Gluck y algo de Mozart estuvieron presentes en estas “hadas” parisinas. De la expresividad e intensidad que surgió de la página escrita (aunque por momentos Minkowski forzó el ritmo y las dinámicas) la ejecución fue siempre viva, variada y sin énfasis. Emilio Sagi firmó un espectáculo convincente, muy colorido, onírico, e inspirado explícitamente en la estética pop, con elementos escénicos bien ubicados y deliberadamente kitsh (como la enorme rosa colocada sobre el escenario, por ejemplo, que recibió la entrada de Ada en el primer acto, o la de un candelero de cristal inclinado que aparece sobre el escenario durante la escena de la locura de Arindal en el tercer acto). El espacio sustancialmente vació, que proyectaba la acción se mostró en un luogo-non-luogo atemporal.
Vocalmente hablando las cosas no parecieron siempre a la altura al comienzo, particularmente en la pareja de protagonistas. A ellos Wagner, les requirió una cierta dosis de músculo. La Ada de Deborah Mayer pareció por momentos ser un poco pálida, con fraseo inerte y un poco descompuesto en la parte alta. David Curry , hizo el papel del príncipe Arindal con una voz que careció sustancialmente de squillo , que se endureció saliendo. También Lina Tetruashvili (en el papel de Lora, la hermana del protagonista) dotada de un hermoso timbre de soprano lírica, denotó alguna falta de homogeneidad en el paso del registro. Entre los papeles complementarios (demasiados en esta opera, aunque en las operas sucesivas de Wagner se redujeron) citaremos sobretodo a las vivaces Salomé Haller y a Eduarda Melo (las hadas Farzana y Zemina) y el muy teatral Gernot de Laurent Naouri. Como numero final, Minkowski salió a escena a recoger los merecidos aplausos con la partitura de la opera fuertemente apretada bajo el brazo, dando la impresión de temer que alguno pretendiera llevársela ¿Que en Francia se roban las partituras? Lo investigaremos.
¿Se consigue la grabación filmada? Gracias
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