Massimo Crispi
Affrontare oggi un’opera come Norma sembra essere un’impresa titanica. Titanica, già, come titanici sono i personaggi e come titaniche dovrebbero essere le personalità artistiche degli interpreti chiamati a dar vita ai ruoli. E la storia del teatro del secolo passato è costellata da interpretazioni che sono diventate un punto di riferimento per tutti, dalla Cerquetti alla Callas alla Sutherland, da Corelli a Domingo a Pavarotti. In questo caso, a Pisa, c’erano alcune voci titaniche, sì, ma nel senso della robustezza vocale, non certo in quello dell’adeguatezza e pertinenza stilistica, purtroppo. Cominciamo dal più evidente di tutti, il Pollione di Rudy Park. Voce ammirevole per la potenza e resistenza fisica nonché per la bella pasta del timbro, ricco di risonanze ambrate, la sua capacità interpretativa si è dimostrata inversamente proporzionale alle tre qualità prima enunciate. Nessuno deve avergli spiegato che il mondo di Bellini non è lo stesso di Mascagni, che Norma non è Cavalleria e che i nobili versi di Felice Romani, uno dei più illustri librettisti che l’opera italiana abbia avuto, hanno bisogno di tutt’altra declamazione, prosodia e accentuazione, presupponendo una sapienza che sembrava invece parecchio lontana da Park. Oltre che di una dizione adeguata, aggiungeremmo. Capiamo che un coreano così dotato (e salutato dalla critica come un buon Calaf, come recitava il foglio illustrativo allegato al programma di sala) sia attratto dall’opera italiana e che la possa anche cantar bene ma, si presume, dopo un adeguato studio degli stili e della fonetica, per lo meno! Poi sarebbe anche importante sapere qualche nozione di recitazione per poter far meglio ma oggi, in un mondo dove la mediocrità impera quasi ovunque, sembra di pretendere troppo e si passa per esagerati, incontentabili, per orfani della Callas, etc. etc. L’urlo era la cifra stilistica del Pollione di Park e se il tenore avesse dovuto cantare il ruolo all’Arena avremmo anche potuto capire (ma non approvare) la necessità di una spinta oltre misura per fare arrivare il suono nel miglior modo possibile alle gradinate più lontane, ma in un teatro con un’acustica ottima come il Verdi di Pisa le sue titaniche grida erano quanto mai fuori luogo. Dal punto di vista scenico la sua gestualità era grossolana e sembrava poco curata da chi avrebbe dovuto farlo e il personaggio che ne sortiva era assai grezzo. D’altro canto la Norma di Maria Billeri, pure lei dotata di voce robusta e pregevole, dal colore davvero interessante, non brillava per raffinatezze vocali, cantando più come una Lady Macbeth che come un’eroina belliniana, distribuendo in abbondanza accenti, colpi di glottide e portamenti, soprattutto nei recitativi declamati, rallentando le agilità perché impossibili da cantare a tempo se non si alleggerisce la voce e soprattutto senza una coscienza reale e completa del ruolo. Il molteplice conflitto tra l’amante abbandonata, la madre, l’amante gelosa dell’amica, la sacerdotessa non veniva abbastanza fuori perché era tutto appesantito da una voce (bella, lo ripetiamo) sempre estremamente presente e senza nuances. Era il gesto vocale che latitava, ma d’altro canto con accanto un orco come il Pollione che le avevano destinato poteva essere difficile averne uno. La “Casta diva”, l’enorme bestemmia d’una sacerdotessa che nascondeva i figli avuti dal nemico delle Gallie, era iniziata abbastanza bene, per poi perdersi nelle colorature e nelle scale cromatiche discendenti che spesso sembravano un unico portamento, peccato. C’era solo una parte di Norma, immensa figura del nostro teatro musicale, e lo diciamo a malincuore. Puntualizziamo che, per non colpevolizzare eccessivamente i due artisti principali, mancava una visione registica e direttoriale che facesse venir fuori veramente i turbamenti e le contraddizioni, i condizionamenti sociali e religiosi, le scelte di libertà degli amanti. Il mezzosoprano Alessandra Palomba, una pur dignitosa Adalgisa, esibiva talvolta una voce un po’ ondeggiante, e forse gli estremi acuti sarebbero stati meno difficoltosi per un soprano, a cui spesso si affida il ruolo, anziché leggermente stiracchiati com’è successo. Si deve comunque riconoscere che la Palomba sapeva ben dire le sue frasi e l’Adalgisa che ha proposto era abbastanza adeguata. Ci è piaciuto l’Oroveso di Luca Tittoto, voce incisiva e scura, che ha ricevuto molti e meritati applausi. L’allestimento di Pier Paolo Pacini, regista e light designer, colle scene di Tobia Ercolino e i discreti costumi di Massimo Poli, non disturbava però non era niente di che: l’eccessiva staticità era uno dei limiti di questa messa in scena e coi mezzi oggi disponibili, anche solo con giochi di luce, ormai si possono fare dei grandi effetti. Se ci sono idee, naturalmente. Un’ingombrante assenza era, in ogni caso, evidente: la simbolica quercia sacra d’Irminsul, forte elemento silvestre, quasi personaggio inanimato che muto sorveglia dalla sua mole le vicende umane. Anche la Natura, sempre sullo sfondo, avrebbe dovuto essere co-protagonista in questo dramma romantico travestito da neoclassico, eppure sembrava non esserci: la luna, il bosco, il fuoco erano altrove. Solo la notte era percepibile in questa visione di Pacini, e giustamente: la notte che avvolge tutto e dove Norma, Pollione, Adalgisa nascondono le proprie angosce e i propri incubi: la notte che cala immediata nel sogno di Pollione, la notte in cui si immerge Adalgisa per pregare sull’altare druidico, la notte che nasconde il pugnale di Norma. Corretti erano Clotilde, Nadiya Petrenko, e Flavio, Giorgio Trucco. Il coro del Teatro di Pisa, preparato da Marco Bargagna, era discontinuo e ogni tanto le voci sembravano un po’ sgranate, ma nel complesso ha retto e scenicamente le masse erano abbastanza coerenti. L’orchestrazione di Norma non brilla per arrangiamenti sconvolgenti, va detto, in quanto l’orchestra viene frequentemente utilizzata per accompagnare le voci con arpeggi modulanti; la direzione di Alessandro Pinzauti, alla guida della pur discreta Orchestra Regionale Toscana, non brillava neanche per essere un buon accompagnamento, assecondando troppo il rallentamento delle colorature vocali; spesso, inoltre, il volume dell’insieme prevaleva sulle voci, facendo venir fuori un effetto banda che non rendeva un bel servizio a Bellini. E già: alla fine, oltre alla quercia, Bellini era davvero il grande assente in questa Norma.
Poner hoy una opera como Norma puede parecer una empresa titánica, como titánicos son los personajes y titánica deberían ser las personalidades artísticas de los cantantes que interpreten los papeles. La historia del teatro del siglo pasado es una constelación de interpretaciones que deberían ser un punto de referencia para todo el mundo, de Cerquetti a Callas y a Sutherland, y de Corelli a Domingo y Pavarotti. En este caso, en Pisa hubo voces titánicas, pero en el sentido de voces robustas y no en la pertinencia estilística y de altura del papel. Para empezar, el más evidente fue el Pollione de Rudy Park. Voz admirable por potencia, resistencia física y por su calidad tímbrica, cuya capacidad interpretativa era proporcionalmente inversa a las cualidades ya mencionadas. Parecía que nadie le explicó que el mundo de Bellini no es el mismo de Mascagni, que Norma no es Cavalleria y que los nobles poemas de Felice Romani, uno de los mejores poetas de la ópera italiana, necesitan otra declamación, otra prosodia, otra acentuación, suponiendo una sabiduría que parecía estar a años luz de Park, se añadiría también una dicción a la altura. Comprendemos bien que un coreano tan dotado (y que la crítica señaló como un buen Calaf, así señalaba la ficha agregada al programa) pueda ser fascinado por la ópera italiana y que pueda cantarla bien pero, se supone, que después de un estudio adecuado de los estilos y la pronunciación sería importante que conociera reglas de acción para actuar mejor pero en este mundo donde la mediocridad es la reina absoluta, parece demasiado pretender, y se puede pasar por exagerados, huérfanos de la Callas, etc. El grito pareció ser la llave estilística del Pollione de Rudy Park, y si el tenor tuviera que cantar en la Arena de Verona se entendería su necesidad de tanto impulsar sus sonidos para que lo escuchasen hasta el último asiento de arriba, pero en un teatro como el Verdi de Pisa de acústica excelente, sus gritos fueron inútiles. A eso se unió una gestualidad grosera La Norma de Maria Billeri, también de voz grande y fuerte y precioso color, se distinguió por su fineza vocal, cantando más como Lady Macbeth que como una heroína belliniana, regalándonos abundantes golpes de la glotis, acentos y “portes de voix” sobre todo en los recitativos y declamados. Además sus agilidades fueron despacio, cuando debian ser cantadas más ligeras y no en voz plena. Su conciencia del papel pareció incompleta y la polifacética lucha entre la amante abandonada, la madre, la amiga traicionada y celosa, la sacerdotisa no salió bien porque su voz no tuvo preciosidades. Lo que faltó fue el gesto vocal, pero fue dificil conseguirlo con un ogro como el Pollione que tuvo al lado. La “Casta diva”, la enorme blasfemia de una sacerdotisa que esconde sus hijos, empezó bastante bien pero pronto se perdió en las coloraturas y en las escalas cromáticas descendientes que al final parecieron un único “porte de voix”. Precisando para no culpar a los artistas principales, faltó una visión escénica y musical que sacara todos los desconciertos, las contradicciones, los condicionamientos sociales y religiosos, las elegidas de libertad de los amantes. La mezzosoprano Alessandra Palomba, digna Adalgisa, a menudo mostró una voz un poco vacilante y unas veces los agudos extremos pudieron ser menos estirados como cantados por una soprano, a quien se confia el papel de vez en cuando. Se reconoce Palomba expreso bien sus frases y su Adalgisa resultó bastante correcta. Gustó mucho el Oroveso de Luca Tittoto, voz incisiva y oscura, que mereció muchos aplausos. La puesta en escena de Pier Paolo Pacini, director e iluminador, con decoración de Tobia Ercolino y discreto vestuario de Massimo Poli, no molestó a pero no se distinguió: la excesiva inercia fue uno de los limites de esta realización. Raro, que con los medios hoy disponibles, aunque solamente con juegos de iluminación, se pueden hacer efectos soberbios. Claro, si no faltan las ideas. Hubo ausencia del roble sagrado de Irminsul, fuerte elemento silvestre, casi personaje inanimado y mudo, que vigila sobre los casos de los humanos. La naturaleza también, en el fundo, hubiera sido coprotagonista en este drama romántico disfrazado de neoclásico, no estuvo la luna, el bosque, el fuego. La noche se apercibió en esta visión del drama de Pacini, ya que todo envuelve y donde Norma, Pollione, Adalgisa esconden sus angustias y pesadillas. La noche que aparece de repente en el sueño de Pollione, donde Adalgisa reza sobre el altar druídico, la que esconde el puñal de Norma. Correctos fueron Clotilde, Nadiya Petrenko, y Flavio, Giorgio Trucco. El coro del Teatro di Pisa, dirigido por Marco Bargagna, fue discontinuo y por momentos las voces parecieron deterioradas, pero tuvo coherencia escénica y musical. La partitura de Norma no tiene un brillo especial por sus orquestaciones, porque la orquesta Bellini la utiliza para acompañar a las voces con arpegios modulantes. La dirección de Alessandro Pinzauti, al frente de la discreta Orchestra Regionale Toscana tampoco brilló como buena acompañante, sirviendo demasiado a la marcha lenta de las coloraturas vocales, y a menudo, la sonoridad instrumental sobrepasó las voces provocando un efecto banda que no hizo justicia a Bellini. Al final, no estuvo el roble y tampoco Bellini en esta Norma.
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