Crédito: Copyright Stofleth – Opera de Lyon
Massimo Viazzo
Lo spettacolo firmato da Peter Stein, andato in scena all’Opéra di Lyon, è quello che approderà, esattamente fra un anno, al Teatro alla Scala (e subito dopo a Vienna). Si tratta della Lulu in tre atti (con il terzo atto ormai acquisito nell’affidabilissima versione di Friedrich Cerha). E questa è già una buona notizia in quanto sarebbe davvero doloroso rinunciare ad un’ora del capolavoro berghiano e non mi riferisco solo alle qualità prettamente musicali del terzo atto (che alla morte dell’autore era praticamente completo in «particella»), ma ci sarebbero ripercussioni enormi sull’organicità delle proporzioni complessive.
All’interno di ambienti luminosissimi disegnati con estrema eleganza da Ferdinand Wögerbauer, tra grandi vetrate e pareti immacolate (almeno fino alla Filmmusik, dopodiché la «caduta» di Lulu è accompagnata da un progressivo incupimento cromatico) arredati con gusto art déco e geometricamente armonizzati, il regista tedesco Peter Stein ha guidato con maestria un cast di straordinario talento teatrale. La narrazione è risultata così diretta, tesissima e sempre disinvolta. A cominciare proprio dalla protagonista, una Laura Aikin assolutamente perfetta. Il soprano americano ha fatto di Lulu uno dei ruoli chiave della sua carriera, ma erano quasi sei anni che non lo affrontava. Chiamata all’ultimo momento a sostituire l’annunciata Kerstin Avemo la Aikin (sarà sempre lei la Lulu scaligera del prossimo anno) ha sfoderato una prestazione inarrivabile per sicurezza vocale (acuti smaglianti, coloratura nitidissima, ma anche peso vocale) ed esuberanza scenica restituendoci una Lulu seducente (classico il caschetto alla Louise Brooks), ma svagata, e scostante. Pochi i momenti caratterialmente davvero «sinceri»: forse solo il rapporto con il vecchio Schigolch -qui interpretato da un commovente Franz Mazura, ancora nella mischia a 85 anni!- sembra schietto, autentico. Memorabile il momento in cui, nel corso della prima scena del terzo atto, Lulu si rannicchia in posizione quasi fetale sulle sue ginocchia. Per il resto questa è una Lulu spietatamente irresponsabile, immatura, a volte assente, ma forse per questo innocente. Laura Aikin ha saputo essere carezzevole nella Canzonetta quasi danzata sul corpo del Professore morto (la prima di una serie di situazioni grottesche che terranno costantemente il pubblico in attesa, uno degli atout vincenti di questo allestimento); tenera e straziante nel meraviglioso Lied del secondo atto, il climax poetico dell’opera, cantato indietreggiando sull’elegante scalinata posta al centro simmetrico della scena, con la pistola spianata sul Dottor Schön; inebriante nell’appassionato duetto con Alwa («Rondo») che conclude il secondo atto, salvo poi accennare con una punta di candida ingenuità al fatto di trovarsi, lei ed Alwa, sullo stesso divano dove Schön, assassinato poco prima quasi in un atto di balordaggine, moriva dissanguato. Un Alwa, tra l’altro, molto ben cantato da Thomas Piffka. Nonostante un’indisposizione annunciata prima dell’inizio della recita il tenore tedesco ha sfoggiato un bel timbro caldo e una certa varietà di fraseggio. Culmine della prova l’impervio Hymne che suggellava la sua disperata dichiarazione d’amore a Lulu, reso con squillo e linea fermissima. Anche il resto della compagnia ha esibito un carisma scenico debordante, a tratti virtuosistico, tale da far dimenticare qualche pecca vocale.
Kazushi Ono, fresco direttore stabile dell’orchestra lionese, ha ottenuto il massimo dal suo complesso. Il maestro giapponese ha concertato ricercando nitidezza di linee e trasparenza, evitando facili ma inadeguati giochi d’impasto timbrico, riuscendo altresì con semplicità a mantenere una tensione narrativa incessante e avvincente (vedasi ad esempio la Monoritmica nel primo atto, dove l’«Hauptrhythmus», specie di extrasistole musicale che pervade tutta la partitura, si erge a protagonista assoluto in un crescendo monstre, per accumulo, che porterà al suicidio del Pittore). Alla fine trionfo per Laura Aikin e per Kazushi Ono.
Foto: Laura Aikin (Lulu)
Crédito: Copyright Stofleth – Opera de Lyon
En el interior de los ambientes luminosos diseñados con extrema elegancia por Ferdinand Wögerbauer, grandes vidrieras y paredes inmaculadas (al menos hasta el fin de la Filmmusik, después de la cual la “caída” de Lulu va acompañada de un progresivo cubierto cromático) adornados con gusto art- déco y geométricamente armonizados, el regista aleman Peter Stein, guió con maestría un elenco de extraordinario talento teatral. Asi, la narración resulto casi directa, tensa y siempre desenvuelta.
Comenzando con la protagonista, Laura Aikin estuvo absolutamente perfecta. La soprano americana ha hecho de Lulu uno de los papeles claves de su carrera, a pesar de que habían pasado casi seis años que no lo afrontaba. Llamada de ultimo momento para sustituir a la anunciada Kertin Avema, Aikin (ella cantará también el papel de Lulu en la Scala el próximo año) dibujó una prestación inalcanzable por seguridad vocal (agudos brillantes, coloratura nítida, pero con peso vocal) y exhuberancia escénica recreando una Lulu seductora (con clásica cabellera a la Louise Brooks), pero divertida y distante.
La recitación de Aikin fue siempre ambigua, y fue solo sincera hasta el encuentro con el viejo Schigolch –que interpretó un conmovedor Franz Mazura, que en la contienda tiene 85 años- y pareció sincero y autentico. Memorable fue el momento, en el cual durante la primera escena del tercer acto, Lulu se inclina en posición casi fetal en sus rodillas. Para el resto, esta fue una Lulu despiadadamente irresponsable, inmadura y por momentos ausente, y quizás por ello inocente. Laura Aikin supo ser dulce en la Canzonetta, casi bailada sobre el cuerpo del profesor muerto (la primera de una serie de situaciones grotescas que mantuvieron constantemente al público con expectación, uno de los atout de esta producción escénica); tierna y desgarradora en el maravilloso Lied del segundo acto, el clímax poético de la opera, cantado y retirándose de la elegante escalinata situada en el centro simétrico de la escena, con la pistola sobre el Dottor Schön; embriagante fue el apasionado dueto con Alwa (“Rondo”) que concluye el segundo acto, con una cándida ingenuidad en el encuentro entre ella y Alwa, en el mismo diván en el cual Schön, asesinado poco antes por una tontería, muere desangrado.
Alwa, entre otros, fue bien cantado por Thomas Piffka. Sin embargo, y a pesar de una indisposición anunciada al inicio de la función, el tenor mostró un agraciado timbre calido y cierta variedad en el fraseo. Culminó su prueba con el abrupto Hymne que sellaba su desesperada declaración a Lulu, manteniendo el squillo y la línea firme.
El resto de la compañía exhibió carisma escénico desbordante, y un desempeño virtuoso, que ha hecho olvidar algunas fallas vocales.
Kazushi Ono, sereno director estable de la orquesta lionesa, obtuvo el máximo del grupo completo. El maestro japonés concertó buscando la nitidez de las líneas y transparencia, evitando fáciles pero inadecuados trampas de mezclas timbricas, logrando sin embargo, y con simpleza mantener una incesante y atrayente tensión narrativa (viéndose como ejemplo la Monorítmica del primer acto, en la cual la «Hauptrhythmus», una especio de extrasístole musical invade toda la partitura, se erige como protagonista absoluta en un crescendo monstre, que se acumula y que lleva al pintor al suicidio). Al final, un triunfo para Laura Aikin y para Kazushi Ono.
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