Massimo Viazzo
Un sole crepuscolare, ormai malato, accompagna l’ultima apparizione di Gustav von Aschenbach sulla spiaggia del Lido, un Aschenbach stremato non solo dalla malattia, ma da un dibattito interiore sempre più furibondo. Sullo sfondo Tadzio, diafano, abbozza gli ultimi affievoliti volteggi: la silhouette dell’efebo polacco si staglia su un bagliore divenuto ultraterreno e si immortala. E’ così che terminava Death in Venice di Deborah Warner. Si intuiva fin dall’inizio che la regista inglese avrebbe giocato in sottrazione. Gli elementi scenici si riducevano sostanzialmente ad una serie di bagagli che contrassegnano le varie fasi del viaggio, qualche seggiola, e l’immancabile sedia a sdraio. La scena, luogo non certo astratto in questo allestimento (in lontananza spesso erano riconoscibili i contorni, ora nitidi ora sfocati, della città lagunare), viveva comunque una sua dimensione quasi immateriale (quei drappi svolazzanti!), luogo ideale per indagare le proiezioni mentali dell’artista inquieto. Il senso di oppressione, soffocamento, accerchiamento veniva ulteriormente accresciuto dal netto contrasto che si creava tra l’incomunicabilità del protagonista - spesso Aschenbach cantava in proscenio, separato dagli eventi da lui evocati da pareti (psicologiche) mobili - e la lieve definizione degli spazi: anche il mare, infatti, grazie ad indovinate superfici riflettenti che segmentavano il palcoscenico, invadeva la scena pressoché di continuo. La Warner non ha, così, avuto bisogno di tentare strade più ardite o avventurose. Raffinati i costumi d’epoca e virtuosistico l’uso delle luci, come pure molto interessante è stata la prova di Edward Gardner, eccellente nel dosaggio delle dinamiche, molto raffinato timbricamente ed efficace nel gesto. Il giovane direttore inglese ha saputo mantenere un passo teatrale sempre teso, narrando senza tralasciare dettagli e finezze. Bastava sentire, ad esempio, la precisione dei concertati nella caotica e colorita scena dell’incontro multilingue fra gli ospiti dell’albergo nel primo atto, oppure il lugubre distillato di vibrazioni profonde nel Preludio del secondo atto. Molto applaudita la prova del protagonista, John Graham-Hall, un Aschenbach autorevole, dalla dizione perfetta, che ha sostenuto con generosità un ruolo che definire monstre è, forse, riduttivo. Peter Coleman-Wright, pur con un volume non debordante, si è destreggiato sapientemente fra le multiformi personificazioni del traghettatore infernale ed un saldissimo Iestyn Davies ha dato voce ad un Dio Apollo venato di malinconia. A suo agio la truppa, indispensabile, dei comprimari, in gran forma il Coro, e plastica ed elegante la parte coreografica.
Un sole crepuscolare, ormai malato, accompagna l’ultima apparizione di Gustav von Aschenbach sulla spiaggia del Lido, un Aschenbach stremato non solo dalla malattia, ma da un dibattito interiore sempre più furibondo. Sullo sfondo Tadzio, diafano, abbozza gli ultimi affievoliti volteggi: la silhouette dell’efebo polacco si staglia su un bagliore divenuto ultraterreno e si immortala. E’ così che terminava Death in Venice di Deborah Warner. Si intuiva fin dall’inizio che la regista inglese avrebbe giocato in sottrazione. Gli elementi scenici si riducevano sostanzialmente ad una serie di bagagli che contrassegnano le varie fasi del viaggio, qualche seggiola, e l’immancabile sedia a sdraio. La scena, luogo non certo astratto in questo allestimento (in lontananza spesso erano riconoscibili i contorni, ora nitidi ora sfocati, della città lagunare), viveva comunque una sua dimensione quasi immateriale (quei drappi svolazzanti!), luogo ideale per indagare le proiezioni mentali dell’artista inquieto. Il senso di oppressione, soffocamento, accerchiamento veniva ulteriormente accresciuto dal netto contrasto che si creava tra l’incomunicabilità del protagonista - spesso Aschenbach cantava in proscenio, separato dagli eventi da lui evocati da pareti (psicologiche) mobili - e la lieve definizione degli spazi: anche il mare, infatti, grazie ad indovinate superfici riflettenti che segmentavano il palcoscenico, invadeva la scena pressoché di continuo. La Warner non ha, così, avuto bisogno di tentare strade più ardite o avventurose. Raffinati i costumi d’epoca e virtuosistico l’uso delle luci, come pure molto interessante è stata la prova di Edward Gardner, eccellente nel dosaggio delle dinamiche, molto raffinato timbricamente ed efficace nel gesto. Il giovane direttore inglese ha saputo mantenere un passo teatrale sempre teso, narrando senza tralasciare dettagli e finezze. Bastava sentire, ad esempio, la precisione dei concertati nella caotica e colorita scena dell’incontro multilingue fra gli ospiti dell’albergo nel primo atto, oppure il lugubre distillato di vibrazioni profonde nel Preludio del secondo atto. Molto applaudita la prova del protagonista, John Graham-Hall, un Aschenbach autorevole, dalla dizione perfetta, che ha sostenuto con generosità un ruolo che definire monstre è, forse, riduttivo. Peter Coleman-Wright, pur con un volume non debordante, si è destreggiato sapientemente fra le multiformi personificazioni del traghettatore infernale ed un saldissimo Iestyn Davies ha dato voce ad un Dio Apollo venato di malinconia. A suo agio la truppa, indispensabile, dei comprimari, in gran forma il Coro, e plastica ed elegante la parte coreografica.
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