Foto: Gerencia del Palacio de Bellas Artes / INBA
José Noe Mercado
La
settima opera di Giacomo Puccini, La fanciulla del West (1910), su libretto di
Guelfo Civinini (1873 – 1954) e Carlo Zangarini (1874 -1943) da The Girl of the
Golden West di David Belasco (1853 - 1891), in Messico gode curiosamente fama
di jettatura. Un qualcosa di negativo improbabile ma non
impossibile. E non tanto per la leggenda secondo cui sarebbe stata
commissionata al compositore da parte del regime porfirista per celebrare il
centenario dell'Indipendenza e poi rigettata per il soggetto e l'immagine che
offriva dei messicani, essendo il protagonista maschile, Ramérrez, alias Dick
Johnson, un bandito in incognito del Far West, benché la crezione artistica
possa ben sperimentare una ucronia a partire da una realtà storica confermata
da parecchi dettagli. Lo è molto di più perché se si è pensato a essa (Adamo
Boari, Gustavo Campa, Justo Sierra, perfino Porfirio Díaz) come debutto
pucciniano impareggiabile per l'inaugurazione del Teatro Nacional (che poi
sarebbe stato il Palacio de Bellas Artes), previsto per il 1910, Giacomo
Puccini, essendo figura di primo piano fra i compositori dell'epoca, non si
entusiasmò all'idea di far nascere una delle sue opere in un luogo senza storia
e prestigio. Rifiutò l'offerta. Tanto meglio. Perché in Messico, quell'anno,
non ci fu nessuna inaugurazione del Teatro Nacional, bensì una rivoluzione. E
le Bellas Artes ha aperto le porte solo nel 1934. Una rappresentazione del 1920
al Teatro Arbeu da parte di una compagnia itinerante ha permesso infine
l'esordio dell'opera in Messico dopo vari annunci e tentativi falliti e per decenni
l'assenza di un vero e proprio debutto nazionale è stata accompagnata da una
sorta di censura o ostracismo, ovviamente non ufficiale, da parte delle
autorità nazionali. Fino al 1976, anno in cui la Compañía Nacional de Ópera
l'ha messa in programma, provata e poi, per rimostranze burocratiche e
artistiche assommate a incertezze in un cambio ai vertici presidenziali,
semplicemente non andò in scena. Ugualmente, all'inizio del XXI secolo, la
Ópera de Bellas Artes (OBA) ha previsto di proporla nella sua programmazione,
idea che non si è concretizzata a causa della perdita delle vecchie produzioni
in un incendio dei magazzini dell'INBA che ha reso prioritaria la ricostruzione
del repertorio più indispensabile. E se nella stagione 2017 della OBA, dopo novantasette
anni da quello dell'Arbreu e centosette da quello assoluto, La fanciulla del
West è giunta alla prima di quattro recite programmate della nuova produzione
nel Palacio de Bellas Artes il 17 settembre, appena passata la Festa
dell'Indipendenza, con la guida entusiasta di Sergio Vela per l'ideazione, la
scena, le luci e la regia, il terremoto di magnitudo 7.1 che il 19 settembre ha
scosso la zona centrale e meridionale del Paese ha fatto sì che tanto l'INBA
quanto la Protección Civil sconsigliassero e sospendessero tutte le attività
con pubblici assembramenti - spettacoli, concerti, sport e altro - per
concentrarsi sui danni terribili del sisma ed evitare il più possibile
occasioni di danni maggiori. Se questa breve storia non è jella, non so cosa lo
sia. A ciò, per di più, deve aggiungersi una prova poco fortunata del soprano
spagnolo Ángeles Blancas, la fanciulla Minnie, la sera del debutto. Con voce
compressa, piatta al centro, declinante, con un registro grave gridato,
stonature e stridori innumerevioli, il ruolo protagonistico non è emerso in
alcun modo. Almeno per il pubblico, che l'ha condannata, al termine, senza
alcuna pietà. Meno male che nel cast si
trovava anche il tenore basco Andeka Gorrotxategui, che ha reso come si deve la
parte di Dick Johnson/Ramérrez. La sua celebre aria “Ch’ella mi creda”, come è
facile immaginare, ha ricevuto applausi e ovazioni. Anche il baritono Jorge
Lagunes, lo sceriffo Jack Rance, ha sostenuto degnamente l'impegno vocale,
sebbene come attore fosse condizionato da un'impostazione concettuale
decisamente simbolica e astratta. Un modo raro di rappresentare un giocatore e
un pistolero, in fin dei conti ingenuo. Sarebbe parso meno curioso se il
concetto scenico minimalista avesse potuto contestualizzare certe azioni e
certi sentimenti presenti in una trama dallo sviluppo lento e non sempre
d'impatto: il testosterone degli avventori che affogano nell'alcool il dolore
per l'emigrazione, le ferite psicologiche della nostalgia o un timido amore non
corrisposto per Minnie, la manipolazione e il ricatto per fini passionali. Non tanto per evitare i cliché del genere
Western, quanto per evitare quelli del maestro Sergio Vela, che hanno funzionato
meglio in altri titoli, di luogo e tempo indeterminati. La scena pressoché nuda
e l'eccessiva oscurità non sono riuscite a evidenziare nell'azione momenti di
impatto drammatico e introspettivo come
la trappola, l'autodifesa, il dilemma fra legge e giustizia. Erano lì ma
non si vedevano. Anche i volti, le identità, i costumi dei personaggi (a cura
di Violeta Rojas) e il trucco di Ilka Monforte son rimasti nella penombra. Quanto
all'orchestra, al di fuori di passaggi in cui il volume è parso esageratamente
alto al punto di coprire i solisti, il lavoro di Luiz Fernando Malheiro con
l'Orchestra e il Coro del Teatro de Bellas Artes (quest'ultimo preparato da
Carlos Aransay) ha permesso di ammirare la ricca scrittura pucciniana, le
risorse con cui costruisce un flusso musicale che pare non fermarsi, annullando
quasi la struttura per numeri con punti di riferimento e intuizioni più
wagneriani e cinematografici. Nei ruoli
secondari, nell'equilibrio complessivo, si sono distinti anche il tenore Ángel
Ruz come Nick, il baritono Enrique Ángeles nel ruolo di Sonora o il Jack
Wallace del basso Óscar Velázquez. Il resto del cast, minatori, pellerossa e
altro, non ha deluso vocalmente permettendo di mettere alla prova membri
dell'Estudio de la Ópera de Bellas Artes,posto che questo sembra aver trovato
la sua missione: fornire interpreti per le piccole parti. Era assai probabile
che i dettagli delle luci e dell'effetto drammatico che se ne sarebbero giovati
si sarebbero potuti correggere nel corso delle recite. Il discorso scenico
poteva avere un certo magine di crescita e rifinitura una volta presentato al
debutto. Le congratulazioni a Vela si potrebbero fare non solo per aver scelto
questo titolo, ma anche per la maniera di riproporlo. Ma si è detto. Non ci
sono state, almeno al momento di completare queste righe, altre recite in un
Messico impegnato nella ripresa da un impatto tellurico così doloroso.
Prioritario. Ineludibile. Buona fortuna.
No comments:
Post a Comment
Note: Only a member of this blog may post a comment.