Massimo Crispi
Fine Settecento, Turchia. Un Pascià che parla in Hochdeutsch, ben educato, che sì, possiede un harèm, ma che poi non vuole costringere Konstanze (nomina sunt consequentia rerum...) ad amarlo perché desidera che lei arrivi ad innamorarsene spontaneamente. Una donna, anzi due, europee, rapite e imprigionate, seppur in una prigione d’oro, tutta colorata e piena di mollezze orientali e profumi, in giardini chiusi e dietro griglie impenetrabili, su cui fa guardia Osmin, burbera e grezza creatura con tutti i luoghi comuni dell’uomo-padrone mussulmano. Uno schiavo giardiniere del Pascià, comunque nelle sue grazie, compagno dell’inglesina rapita, Blonde, dall’iberico nome di Pedrillo, e il suo padrone, Belmonte, iberico anche lui, che giunge in Turchia da uomo libero in cerca della sua Konstanze per liberarla. Shakerate il tutto e avrete il Ratto dal Serraglio, turcheria di fine secolo della premiatissima ditta Mozart, che non ne sbagliava una. Il Ratto è una vivacissima opera, con strepito di cimbali e percussioni per caratterizzare le turcherie, com’era di moda all’epoca, con commedie degli equivoci, agnizioni, ritrovamenti, agguati, una serie di combinazioni combinate e luoghi comuni sul mondo mediorientale che fanno sorridere, forse più all’epoca, probabilmente, ma che rendono ancora oggi l’opera gradevole e rappresentata.
Però, se la gioia e l’allegria veniva dalla parte scenica, con un Maurizio Muraro, divertente Osmin dalle goffe astuzie e di facile corruzione con bottiglie di vino delizioso, il cui cane da guardia è un enorme coccodrillo da lui addomesticato, simpaticissimo; con un Pedrillo assai vivace anch’egli in perfetta compagnia coll’agile e civettuola Blonde di Chen Reiss; con un sexy Selim Pasha, che non si capisce, francamente, come Konstanze potesse preferirgli l’impacciato Belmonte, dal lato dell’orchestra diretta da Zubin Mehta questa effervescente e scoppiettante miscela non era sempre evidente. Elegante, certamente, soprattutto nelle arie principali dei personaggi, in particolare le due di Konstanze e quelle di Belmonte, però mai davvero mozartianamente folle fino in fondo. Fin dall’ouverture appariva po’ ingessato, ecco. Soffriva, questo Ratto, come se la musica fosse prigioniera del Serraglio stesso, senza la vera libertà in cui avrebbe dovuto, forse, volteggiare e galleggiare di continuo. Perché è la levità la chiave principale di Mozart, almeno in quest’opera, anche nei momenti tragici c’è comunque una scintilla di salvazione, una via d’uscita, un’ironia che mostra una luce. La risata ridicola e demente sempre in agguato, anche nelle situazioni più tragiche, che Milos Forman faceva risuonare in Amadeus, era una trovata assolutamente geniale e pertinente, perché veniva fuori proprio questo carattere mozartiano del perenne gioco, la perenne voglia d’adolescenza, il perenne anelito alla vita, pur in situazioni difficilissime. L’allestimento, sempre gradevole, era quello del Maggio di qualche anno fa, a firma di Christoph Wagenknecht, con pannelli turcheschi di geometrie colorate, che vanno e vengono e che si combinano in tutte le maniere possibili, e coi ricchi costumi di Catherine Voeffray. La regia di Eike Gramss, aveva invenzioni divertenti: il grande coccodrillo, un vero e proprio personaggio in più che interagisce cogli altri; l’iniziale gioco anamorfico della barca e del barcaiolo, che poi è Belmonte stesso; i personaggi erano curati, ove possibile; qualche battuta divertente nel testo... ed era, fortunatamente, abbastanza nella tradizione: generalmente tremo quando ci sono regie tedesche in agguato perché ci si può aspettare che il serraglio di Selim vada a finire sul pianeta Piri e i protagonisti siano di razze aliene un po’ stranine. Belmonte era quindi un un po’ goffo e non si capisce come riesca ad arrivare, imbranato com’è, al serraglio di Selim, ma nelle opere tutto è possibile.
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