Roberta Pedrotti
Una triade eccellente che getta uno sguardo illuminante sulla temperie culturale e musicale che attraversa il passaggio fra i due secoli “l’un contro l’altro armati”, su parallelismi e suggestioni, sulle mille sfumature che intercorrono fra classicismo e romanticismo, sul respiro europeo e sui reciproci rapporti fra compositori italiani e d’oltralpe, fra cultura prevalentemente operistica o strumentale (schematismo francamente superficiale e fuorviante).
Il percorso è più poetico che cronologico, nella prima parte di Beethoven ascoltiamo dapprima l’ouverture dell’Egmont (1810), poi il Lied corale Meeresstille und glückliche Fahrt (1815), infine l’aria da concerto Ah perfido (1796). Goethe, nei primi due casi, con la sua anima più romantica e stürm und drang e quella winckelmanniana di nobile semplicità e quieta grandezza. Poi un’aria giovanile, un saggio di stile italiano (per struttura e accompagnamento chiaramente ispirato all’opera riformata e già foriero di quel che sarà il Beethoven maturo, più convenzionale e meno fluente per linea vocale) da una fonte metastasiana. Ecco che, in apertura della seconda parte, l’ouverture della Semiramide di Rossini (1823), utopica restaurazione del melodramma metastasiano, che in un’architettura drammatica e musicale prossima all’ideale di Winckelmann istilla il fuoco non troppo latente di una nuova sensibilità, di un nuovo respiro compositivo e teatrale. Segue La morte di Didone (1811 circa), riduzione dell’ultimo atto della tragedia metastasiana ad opera di un anonimo poeta nel quale ci azzarderemmo a riconoscere Vincenzina Viganò Mombelli, librettista di gusto classico, già autrice di Demetrio e Polibio, prima opera del Pesarese, e madre di Maria Esther Mombelli, primadonna del Demetrio e destinataria della cantata. Per la scolpitezza del recitativo, la potenza del coro e la mobilità della linea vocale la cantata, pur composta a meno di vent’anni, rappresenta uno dei più alti capolavori rossiniani, vicina alla poetica e nel linguaggio di quel vertice dell’opera tragica franco-napoletana che è la purtroppo misconosciuta Ecuba di Manfroce (1812).
Malauguratamente, bisogna subito dire che la prova di Stefano Ranzani, dell’orchestra e del coro dell’Arena non è stata propriamente all’altezza della situazione. Beethoven mancava si slancio, di personalità, di quell’idea superiore di poesia e ispirazione che dovrebbe essere la ragion d’essere d’ogni esecuzione di queste pagine. Il rischio della noia è un peccato mortale e dobbiamo peraltro rilevare una prova non impeccabile del coro (poco pulito anche nelle polifonie rossiniane), nella speranza che il nuovo direttore Giovanni Andreoli, appena subentrato a Marco Faelli, possa rapidamente provi rimedio. L’ouverture di Semiramide, con tempi decisamente garibaldini, perde il sapore arcano di un tema che dovrebbe sorgere dalle tenebre del mito, fra i vapori d’incenso e le ombre dei templi babilonesi, fra i profumi dei giardini pensili e le oscurità dei mausolei. Tutto resta in superficie, per di più con soventi imprecisioni strumentali. Quando però la Devia sale sul palcoscenico tutto sembra cambiare. L’essere profondamente antidiva, il modo discreto ed elegante di porsi, l’osservare attenta gli attacchi del direttore hanno fatto di lei una vera diva in senso classico, musa e vestale del Canto, della Musica e del Testo. Il suo pubblico non cerca la celebrazione dell’ego dell’artista, ma la celebrazione, attraverso la grandezza dell’artista, dell’Opera e dell’Autore. Ci si trova, infatti, di fronte oltre che a una lezione di canto impeccabile (la tecnica della signora è detta miracolosa, eppure è semplicemente corretta, puntigliosa e sicura) a un’eccelsa dimostrazione dello stile drammatico belcantista. Mentre, infatti, le più note eroine tragiche rossiniane sono state concepite per la vocalità anfibia e presumibilmente scura di Isabella Colbran, La morte di Didone porta ai massimi esiti drammatici una tessitura comunemente definita di soprano leggero o di coloratura. Didone è spericolatamente belcantista, è acuta, senza dubbio, ma non è una fanciulla indifesa come Amenaide. Didone è regina, è guerriera e amante come Semiramide, come Semiramide è vedova e ha trovato un nuovo amore. È ora una donna abbandonata e votata alla morte e alla vendetta, come Armida. Tutto questo deve essere espresso con scansione aulica, da autentica tragédienne, della parola scenica, deve essere reso con altera solennità ed emozione lancinante anche nelle vette del pentagramma, quasi sfere iperuranie cui attinge l’anima nobile dell’eroina. Così fa Mariella Devia, con il gioco stupefacente di dinamiche e colori che la padronanza perfetta di tecnica e stile le consentono anche dopo tanti anni di carriera (e a una quindicina d’anni da una strepitosa incisione della stessa cantata).
Vale tutto il concerto l’iridescenza abbacinante di quella messa di voce e di quell’ascesa alle sfere celesti nella frase finale: “Precipiti Cartago, arda la reggia e sia il cenere di lei la tomba mia”. Un istante d’attonita emozione, un istante sospeso, poi la sala esplode in un’ovazione.
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