Massimo Crispi
L’amor coniugale, si sa, vince ogni sfida. Fidelio über alles. Chissà perché poi è sempre la donna che deve fare i grandi passi, all’uomo ne sono concessi altri e d’altro tipo, più spettacolari, magari, attraverso i quali, alla fine, l’uomo ci fa una figura scenica più evidente, e più comodi. E chissà perché è sempre l’azione della femmina a danneggiare il maschio, vedi il primo di tutti, Adamo, e vedi il povero Imperatore di quest’opera che, a causa della mancata acquisizione dell’ombra da parte dell’Imperatrice, pur non entrandoci nulla lui, si mineralizza, potendo solo roteare gli occhi spiritati nel proprio simulacro di pietra. Strauss e Hofmannstahl non avevano ancora sperimentato l’amor coniugale salvifico nelle loro opere. Anzi, fino ad allora di amor coniugale proprio non ce n’era stato, perbacco, tra Marescialle quasi pedofile, Clitennestre omicide, Arianne piantate in-Nasso, fino a quando i due non decisero di affidarsi a una complicatissima fiaba orientale frullandola col Faust, Le Mille e una Notte e tanti altri ingredienti, simboli, magie, maledizioni, cessioni di anime e di ombre e fuochi e fumi e acque e rocce e metamorfosi e prove e riti, e il cui risultato fu Die Frau ohne Schatten, la Donna senz’ombra. Dire che è una pietanza riuscita fino in fondo può essere azzardato, ma di pasticci riusciti parzialmente eppure innegabili capolavori della storia del teatro musicale ce n’è a bizzeffe: solo il Flauto Magico, pur scombiccheratissimo com’è, per fare un esempio, continua a far felici grandi e piccini.
Perché mai la Donna senz’ombra sarebbe dunque inconsapevolmente opportuna a quest’occasione? Quando fu concepita dalla coppia Strauss-Hofmannsthal era il 1915, lo scoppio della Grande Guerra, anche se vide la luce in teatro anni dopo. Il concetto centrale dell’opera è che se non c’è una discendenza la vita è inutile, che la coppia può essere solo benedetta dai figli sennò è una sterile istituzione, meglio il libero amore. Accidenti, diremmo noi, è proprio l’opera per il Vaticano e il Movimento per la Vita, dovrebbero rappresentarla a ogni piè sospinto in Sala Nervi e in tutte le parrocchie del reame per educare questa progenie cinica, peccatrice e consumista. Ma il messaggio, uno dei messaggi, che emerge è che è la discendenza che garantisce il passaggio, la continuità, il legame tra il passato, il presente e il futuro. Esattamente quello che passava con una conflagrazione mondiale in quegli anni e quello che stiamo passando in questo momento nella nostra civiltà attuale, a un secolo di distanza. E il decreto ministeriale, penalizzando la perpetuazione della cultura e della musica attraverso le fondazioni, ne sancirebbe di fatto la scomparsa.
Eppure il miracolo è avvenuto, con dovizia di mezzi, va detto, e con un ottimo risultato sui vari fronti. Quello musicale, innanzi tutto, con delle voci sublimi, iniziando da Barak, Albert Dohmen, superlativo, l’Imperatrice, eccellente Adrianne Pieczonka, la Moglie di Barak, Elena Panktratova, oltre ogni immaginazione, e, in misura minore ma sempre d’alto livello, l’Imperatore, Torsten Kerl, e la Nutrice, Lioba Braun. Enumerare il resto del cast è impossibile per la quantità di ruoli, ma tutti hanno dimostrato gran professionismo. Solo una menzione d’onore, meritata, per il Messaggero, il sontuoso e terribile Samuel Youn. L’orchestra del Maggio, sotto la sapiente guida di Mehta, e forse anche galvanizzata dall’appoggio del pubblico e del direttore, ha suonato in stato di grazia, offrendo un immenso affresco, ora sinfonico ora cameristico, della sterminata partitura straussiana (sembra che contenga 180.000 note), interagendo efficacemente col palcoscenico, con momenti di autentica estasi.
Il gran lavoro di Kokkos non è stato solo a livello scenico, bensì anche quello che il regista ha fatto con gli interpreti che, da parte loro, lo hanno assecondato nella sua visione onirica, affrontando le aspre vocalità scritte da Strauss con un’espressione corporea sempre aderente ed estremamente convincente e, soprattutto, mai inutilmente funambolica come molti altri registi usano fare. Le scene della casa del tintore Barak, assai colorate e vivificate dalla varia umanità che vi risiedeva, erano ben congegnate, quasi minimaliste nell’essenzialità delle linee, articolata come fosse più un villaggio del Maghreb che dell’estremo Oriente, e, nell’immenso spazio del palco del Teatro Comunale, sembrava un borgo intero. Bellissimo e magico, sul preludio orchestrale, l’arrivo in barca nel mondo degli spiriti dell’Imperatrice e della Nutrice, con effetti video d’onde e di nebbie sullo sfondo della porta del tempio, vagamente ispirato a Böcklin.
Il gran monologo dell’Imperatrice nell’ultimo atto, dove rinuncia all’ombra per la cui perdita sono finiti prigionieri, tra i geometrici ruderi della loro casa, la Donna e il tintore, era magistrale, da ogni punto di vista. L’isteria della Moglie di Barak e il suo successivo ridimensionamento nella prigionia sono state espresse benissimo dalla Pankratova, voce robusta e di gran bellezza timbrica. La pazienza, l’amore di Barak, anche nei piccoli gesti di Dohmen, venivano fuori ad ogni momento. I brevi interventi del Falco Rosso (Chen Reiss) erano efficaci e impreziositi da un bel costume e da movimenti ben scelti e la tonante voce del Messaggero di Keikobad, immobile in alto nella scena era davvero impressionante. La malvagità della Nutrice, fattucchiera infingarda e melliflua era resa col giusto piglio dalla Braun, pur se la sua voce era meno sonora nel registro grave, che invece caratterizzerebbe meglio un personaggio così demoniaco.
Però siccome ogni medaglia ha il suo rovescio, non proprio ortodosso, vogliamo soffermarci su vari punti, riguardanti soprattutto l’opera. Diamo per scontato che essa è davvero un capolavoro, sia per la musica, che di tanto in tanto apparirebbe quasi da colonna sonora cinematografica, sia per il ricchissimo, densissimo, barocco, forse troppo, testo di Hofmannsthal. Eppure ne avevano messi, lui e Strauss, di ornamenti e di abbellimenti nell’ultima comune fatica, Arianna. Qui, di più. L’intreccio è alquanto macchinoso, e se non ci fossero stati i sopratitoli sarebbe stato di difficile comprensione per chi tedesco non è. Ma poi, anche per chi tedesco è, nel parossismo del canto straussiano molto spesso i versi non si capiscono, figuriamoci in una scrittura così densa come questa. La vicenda, questo continuo andare e venire dal mondo degli spiriti alla Terra, questo insistere sulla necessità della progenie per la coppia, quasi che far sesso senza la procreazione sia poco edificante, è un po’ bacchettona, diciamolo pure. Perfino le sentinelle della città, nel loro canto notturno, esortano gli sposi a fare il loro dovere dandoci dentro e, con una metafora, di mettere al mondo tanti bei marmocchi. E si sentono pure le voci dei bambini non nati, petulanti assai, quasi che fossero stati scritturati dagli antiabortisti per cantare slogan di propaganda demografica. Anche il fatto che la housewife, desperate nonché parecchio scontenta, che si fa un mazzo così per la casa e per il lavoro senz’alcuna gratificazione, e che poi viene sempre tormentata dal marito, bravissima persona, per carità, che vuole però avere una schiera di bambini (che inevitabilmente sarebbero finiti sfruttati nella sua tintoria fin dalla più tenera età, altro che lezioni di danza e di pianoforte e di francese, specialmente in un villaggio orientale), che non possa manco avere una fantasia extraconiugale con un giovane e prestante maschio biancovestito, bello come un tronista della De Filippi, fattole cascare lì per incantesimo o anche solo per ipnosi dalla Nutrice/fintaserva, col quale peraltro non si tocca neanche di striscio, mi sembra davvero un po’ troppo. Addirittura la poveretta si sente in colpa per averlo solo pensato, quell’adulterio incompiuto, e la rinuncia all’ombra/anima/fertilità, il patto faustiano colla strega Nutrice, risulta, alla fine, assolutamente inutile perché non ha prodotto nessuno dei benefici millantati dall’imbonitrice un po’ ciarlatana, una sorta di Wanna Marchi incrociata col Mago Absea, bensì il crollo della coppia dei tintori e della casa e dei cognati e di tutto il resto, giù, nell’avello dell’escuriale.
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