Massimo Crispi
Una passeggiata tra i banchi dei libri antichi vale sempre la pena farla, quando c’è un mercatino di antichità o similia presunte tali. Si possono incontrare delle patacche inverosimili, le memorie della Contessina spagnola Tal de los Tales y Cuales e i suoi intrighi col Visconte italiano Amarillo de’ Casanovi Filicori Amadori, o la pagina mancante, ovviamente manoscritta, della Divina Commedia, con tanto di macchia di torta al mirtillo, che Dante era solito consumare scrivendo, lo sanno tutti, oppure un libro di geografia con continenti inventati del 1507, completo di animali mostruosi e immaginari le cui fattezze erano riportate nei racconti dei marinai, forse ubriachi di rum o di vinho porto... Ogni tanto si incontrano anche autentici pezzi provenienti da archivi storici i cui curatori non hanno avuto, diciamo, l’accortezza di catalogare i propri patrimoni e quindi si può ben dire che le porte di quegli archivi fossero spalancate per far sortire ogni pezzo importante e di valore. Così forse si perdono, ancora oggi, soprattutto in archivi mal gestiti, forse anche da ecclesiastici (ma voglio sottolineare e ribadire il “forse”, parola magica perché non mi si dica che insinui alcunché) e, forse, in una città che è nota come la Città Eterna, senza fare nomi e cognomi, forse si perdono, dicevo, beni che apparterrebbero non solo all’Italia, col suo immenso magazzino di arte e anche di cianfrusaglie, ma al mondo intero. Capita che qualche studioso, italiano o straniero, cerchi in questo o in quell’archivio, italiano, dei documenti che secondo delle ricerche accurate avrebbero dovuto trovarsi lì e che regolarmente non si trovano o non è data neanche la possibilità di cercarli perché l’addetto è in vacanza, o in pensione, o il prete curatore sta dicendo messa oppure è in confessione o anche non ha semplicemente voglia di essere importunato con richieste che lo costringerebbero a scostare le imposte dell’archivio, azione, questa, che apre ogni possibilità di interpretazione di detto comportamento... Cosa recentissimamente accaduta, quest’ultima, sempre nella misteriosa Città Eterna, a due amici studiosi che cercavano dei preziosi documenti su un celebre compositore italiano del 1700 all’archivio del Palazzo Tizio (non si fanno nomi, da noi, non è educato), guarda caso gestito da ecclesiastici, che combinazione. Troppi, in questo paese; qualche giorno bisognerebbe, come dire, archiviare anche loro.
Un aneddoto divertente, riguardante la Biblioteca Nazionale di Firenze, me lo raccontò un amico che cercava un libro e che l’addetto alla ricerca non trovò perché era “alluvionatho”, cosa impossibile perché stampato dopo l’alluvione del 1966... Svista evidente dell’addetto, estremamente competente e regolarmente pagato al 27 d’ogni mese. Può anche accadere, che alcuni preziosi faldoni di archivi, rubati, o venduti, o magari usati per pareggiare un tavolo zoppo, mettiamo il “forse” salvifico, da ignavi curati di campagna, qualora non siano stati usati per incartare il pesce dai medesimi, si ritrovino per pura casualità su un banchetto della Fiera dell’Antiquariato di Arezzo, e che questo faldone finisca nelle mani del prof. Luciano Ceccarelli il quale riconosce l’appartenenza dello stesso all’Archivio della Cappella Musicale di Urbino, un volume di 140 pagine manoscritte sparito intorno alla metà del 1900 e mai più ritrovato, fino a quel momento, il 1984. Niente di meno, ne ha fatta di strada l’incartamento. Prontamente il volumone errante è tornato nella famiglia di cui faceva parte, per fortuna. E cosa c’era in questo volume rilegato in pelle con imprimiture dorate e recante la data del 1700? Delle opere inedite di Antonio Caldara e due cantate per soprano e basso continuo di un compositore di parecchio sconosciuto, forse napoletano, Anastasio Lingua, vissuto a cavallo tra Sei e Settecento, di cui non esisterebbe altra musica che questa, presente nel manoscritto. Accidentaccio, che fortuna! Di Anastasio Lingua si sa poco, è vero, però sappiamo, comunque, da uno studio di Saverio Franchi (Drammaturgia romana, Roma 1997), che nel 1708 andò in scena al palazzo Zuccari, commissionata dalla regina Maria Casimira di Polonia, in esilio dorato a Roma, una serenata a 3 voci intitolata Le Corone Amorose, su poesia di Carlo Sigismondo Capece. Varrebbe la pena di approfondire, perché la musica di Anastasio Lingua, presentata nel CD della CLAVIS “Antonio Caldara, Anastasio Lingua: Cantate”, è davvero di buona fattura. Forse si scoprirebbe un nuovo capolavoro o forse no, ma non si saprà mai senza un’indagine. Sempre che l’archivista del caso permetta di accedere all’eventuale manoscritto, chissà se ancora esistente, alluvionatho, o nel salotto di qualche collezionista cinese nouveau riche. A Pekino o Shangai, ovviamente, esposto per il vanto del collezionista, su un leggìo del XVIII secolo proveniente da qualche convento.
Queste due cantate per soprano e basso continuo, Insoffribbile tormento (sì, con due b) e Amo e scoprir non posso, sono eseguite nel CD dal soprano Pamela Lucciarini e dall’ensemble Recitarcantando, che danno così una possibilità di redenzione ad Anastasio Lingua. Il CD è arricchito da altre cantate a voce sola (La Rosa, Antri, spelonche e leoni, A le spiagge di Cnido) e a due voci con violini e con basso continuo di Antonio Caldara, assai più celebre del coinquilino in questo manoscritto ritrovato. L’altra voce, che in Filli e Tirsi si unisce alla Lucciarini, e che canta anche La Rosa, è quella del contralto Elena Biscuola. Entrambe le voci sono assai interessanti, devo dire. La disinvoltura interpretativa e tecnica delle due artiste colpisce per la precisione e la leggiadria, la fantasia timbrica e di fraseggio, senza alcuna pesantezza o pedanteria, che invece si nota talvolta nell’accompagnamento strumentale, di alto livello, certamente, pur se ogni tanto un po’ sbiadito da parte dei violini. Solo ogni tanto, lo rimarchiamo per essere chiari. Talora un guizzo in più, un tempo staccato un po’ più vivace o una volatina aggiunta, una maggiore differenziazione dei piano e dei forte, avrebbe alleggerito il sovrappeso di un bel piatto di portata di un menù goloso come questo. Non che mancasse il canto nell’esecuzione strumentale, tutt’altro, ma di tanto in tanto l’abbandono era meno morbido, libero e volatile di quello della Lucciarini e della Biscuola, i cui chiaroscuri ed effetti coloristici erano più evidenti e palpabili. Nella registrazione talvolta il canto nel piano delle due cantanti è un po’ troppo coperto dal livello dei violini e si perde qualcosa. Forse perché sono un cantante anch’io ho l’orecchio viziato ed esigo molto dagli strumenti, ma credo che lo scopo ultimo dello strumentista sia di tradurre i segni sul pentagramma come se si trattasse realmente di un testo poetico, che ogni frase strumentale abbia il diritto a un suo canto e che si debba cercare di avvicinarsi il più possibile alle mille risorse timbriche ed espressive della voce umana, soprattutto in un tipo di musica come la cantata barocca a voce e strumenti. Ottima la realizzazione del continuo coi violoncelli superbi di Maurizio Naddeo e Diego Roncalli, il cembalo di Danilo Costantini, Giacomo Barchiesi e Michele Vannelli e gli strumenti a pizzico pertinenti e varii di Maurizio Piantelli. Per il resto è una lettura assai corretta, diciamo che la musica di Antonio Caldara non ha il colpo di genio degli Scarlatti o di Händel, e che forse mi entusiasma maggiormente, sebbene più arcaicizzante, quella di Anastasio Lingua, lo sconosciuto, ma è comunque di razza. Le due cantate di quest’ultimo sembrano rivolte più a un mondo seicentesco, più vicine all’universo tematico e affettivo di Stradella e Steffani che verso il Settecento appena iniziato, come invece quelle di Caldara. Nell’aria finale Vola già dal sen quest’alma, nella seconda cantata di Lingua, si apprezza l’elevato virtuosismo tecnico ed espressivo della Lucciarini. Antri, spelonche e leoni di Caldara possiede pagine di pregio come le arie Freddi marmi e Aure grate, dove il dialogo voce/violini, ricorda certe atmosfere händeliane successive, nelle sue opere italiane più celebri come Poro, Alcina, Giulio Cesare e, prima ancora, nel Trionfo del Tempo e del Disinganno, proprio di quegli anni italiani. Pamela Lucciarini è iperattiva nel campo della ricerca musicale e scopre, di solito, cose interessanti; grazie per questo CD che aggiunge ad ogni modo qualcosa di valore al vastissimo repertorio già registrato.
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