
Roberta Pedrotti
Dire semplicemente che il trentunesimo Rof, che non esitiamo a definire il migliore di questi ultimi anni e uno dei più riusciti fra quelli cui abbiamo assistito, ha avuto degno coronamento nella splendida esecuzione dello Stabat Mater è senza dubbio banale e riduttivo. Non si è trattato solo di un concerto d’altissimo livello, ma di una lettura nuova, illuminante, perfino perturbante. Michele Mariotti ha saputo rivelarci uno dei due sommi capolavori sacri rossiniani, eseguito a Pesaro a cadenza ormai non più che biennale, restituendoci il piacere della scoperta, come se fosse la prima volta. Mai avevo inteso tale smaltatura neoclassica screziata da sottili inquietudini, ma pervasa anche di dolcezza e di insospettabili squarci di luce, quasi un tenero sorriso di speranza, una dolcezza perfino gioiosa potesse sprigionarsi anche dal pianto, anche da parole come “Qui est homo qui non fleret Christi Matrem si videret” o “Fac ut portem Christi mortem”, come se dal cantabile rossiniano si sprigionasse quell’ambiguità salvifica e inquietante che è cifra distintiva della poetica del Pesarese. Quando, peraltro, abbiamo sentito attaccare e accompagnare il Cujus animam del tenore con tanta sinuosa morbidezza? Il timbro lucente di Siragusa si piega in un ricamo di mezzevoci e messe di voce, legando e fraseggiando con rara finezza e sensibilità e aprendosi in un Re bemolle che non è che sviluppo naturale di una progressione espressiva e musicale, nota sfavillante d’armonici che potrebbero apparire perfino insolenti se non fossero iscritti nella virile eleganza di un canto impeccabile. Non solo canto e gesto direttoriale sono intimamente uniti in un disegno comune, ma anche le peculiarità timbriche di ciascuno si fanno elemento significante oltre che estetico, giocando come in un intreccio alchemico su effetti di armonia e contrasto fra la luminosità argentea e cristallina di Marina Rebeka, quella più mediterranea di Antonino Siragusa e i riflessi morbidi e vellutati fra le ombreggiature di Marianna Pizzolato o dello ieratico Mirco Palazzi. Vero basso dal timbro prezioso, quest’ultimo, che in virtù di un’ottima impostazione (l’omogeneità dell’emissione non si disgiunge mai, né potrebbe, da una assoluta compostezza di postura e viso) s’impone con dizione scolpita e partecipata autorità sia nel Pro peccatis sia nell’Eja Mater, ma soprattutto è fondamentale apporto negli assiemi, dove le voci si intrecciano, si fondono e si separano svelando tutte le possibili sfaccettature della polifonia rossiniana, tutti con il direttore uniti da una realizzazione fisica e al contempo impalpabile e spirituale della comunione fra musica e testo, entrambi scanditi con illuminante chiarezza. Tutto è esaltato e assorbito dalla perfetta sintesi d’un comune sentire, tutte le diverse personalità trovano spazio valorizzandosi vicendevolmente senza prevaricarsi, come avviene nel duettino Qui est homo, in cui la Rebeka e la Pizzolato trovano modo con Mariotti di svelare nuovi riflessi proprio in virtù d’una antitesi hegeliana che porta alla sintesi e non alla frattura.

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