Monday, September 13, 2010

Il Nerone ossia l’Incoronazione di Poppea ossia l’Incoronazione del Seicento - La Venexiana

Foto: La Venexiana, José María Lomonaco (mezzosoprano); Pamela Lucciarini (soprano)

Massimo Crispi

Mi ricordo che mia nonna paterna, io ero bambino, in rari momenti di sconforto cantava, con voce flebile e roca per l’età, Pietà, Signore, di me dolente. Era la sua maniera per esorcizzare il dolore e la solitudine, attraverso un mantra sonoro a lei familiare. Io, allora seienne, le chiedevo di chi fosse quella bella melodia e lei mi rispondeva che era la Preghiera di Stradella. Lei la conosceva, almeno, come tale. Molti anni dopo, al Conservatorio me la fecero studiare pure come opera di Alessandro Stradella, in una raccolta di arie antiche. Scoprii successivamente, dopo aver lasciato il Conservatorio, che di Stradella non c’era manco una semibiscroma e che il pezzo era un falso dell’Ottocento, molto probabilmente di François-Joséph Fétis. Crollo di un mito, ma non per questo Pietà, Signore ha smesso di piacermi e di riportarmi ad antiche suggestioni familiari gonfie di tenerezza nel ricordo della nonna rattristata. Accade per molte opere che poi si scopra che non sono di chi si credeva ma di altre persone. Accadde perfino a Stravinsky di cadere in trappola e di attribuire a Pergolesi l’aria Se tu m’ami utilizzandola per il suo Pulcinella. Probabilmente l’aveva conosciuta attraverso la raccolta di arie antiche di Alessandro Parisotti, che dalla seconda metà dell’Ottocento era d’obbligo nella collezione di spartiti salottieri di pianisti e di cantanti: Piacer d’amor, Amarilli, O cessate di piagarmi, eccetera. Ah, certo: anche Caro mio ben. Le prende addirittura in giro, queste arie,

Guido Gozzano nelle sue rime interne in “L’amica di Nonna Speranza”:
“...le amiche provano al piano un fascio di musiche antiche.

Motivi un poco artefatti nel secentismo fronzuto

di Arcangelo del Leuto e d'Alessandro Scarlatti.

Innamorati dispersi, gementi il core e l'augello,

languori del Giordanello in dolci bruttissimi versi...”
Pare che in tempi di ricerche musicologiche un po’ più scientifiche, dove si riesce a determinare la composizione chimica dell’inchiostro, della carta utilizzata, riuscendo anche a capire che tipo di piante e di fibre siano state usate per produrla, dove crescessero e che varietà fossero, svergognando sindoni e altre improbabili reliquie, bisogna rassegnarsi all’idea che anche alcuni tra i più grandi capolavori non furono composti da persone che ormai facevano parte della nostra famiglia ideale. L’ultima scoperta, ma in realtà era già in atto una riscoperta delle autentiche origini di uno dei monumenti del melodramma italiano del Seicento, riguarda L’Incoronazione di Poppea. Sembrerebbe, secondo il musicologo Stefano Aresi e l’ensemble La Venexiana di Claudio Cavina, che di Claudio Monteverdi ci sia davvero ben poco nell’Incoronazione e che sia più un patchwork a parecchie mani, sebbene mani di prima scelta, come quelle di Francesco Cavalli, Benedetto Ferrari, Francesco Sacrati e di quello che ha scritto più cose di tutti, il famoso Anonimo. Diciamo che quest’ipotesi, dovuta ad attente analisi dei manoscritti di Napoli e di Venezia, non cambia di molto l’immenso valore dell’opera, anzi forse glielo accesce. Effettivamente lo stile, le melodie, gli ariosi, i recitativi sono un po’ diversi dalle altre opere monteverdiane pervenuteci e il fatto che di questi manoscritti esista solo o quasi la linea strumentale del basso continuo, oltre, naturalmente a quella vocale ha fatto sbizzarrire nel corso degli anni un esercito di revisori, che hanno aggiunto strumenti, strumentini, strumentoni, strumentissimi, anche dove proprio non ci stavano. Ricordo, per esperienza personale, essendo nel cast, di una revisione dell’opera di Alberto Zedda, proprio nell’anno monteverdiano intorno alla metà degli anni Novanta del XX secolo. Alla Scala, sì... Da una linea di basso continuo, Zedda trasse un’orchestra respighiana, ottenendo solo un baccano infernale che copriva molti preziosismi di un cast stellare, il quale risultò alla fine parecchio molestato dalle inutili e rumorose invenzioni zeddiane provenienti dal golfo mistico. Senza costrutto poi, perché, infine, l’opera, di per sé non facile, risultava irrimediabilmente noiosa e rischiava di essere nuovamente sepolta per parecchio tempo ancora. Fortunatamente questa revisione, anche se chiamarla revisione è parecchio azzardato, si è vista raramente in giro, forse un’apparizione in Spagna, e spero ardentemente che cada nel dimenticatoio perchè era davvero orrenda. Basta però sparlare degli assenti... Andiamo ad analizzare l’esecuzione discografica del gruppo di Cavina. L’operazione musicale e musicologica ha utilizzato il manoscritto di Napoli, pur con tutte le incertezze attributive, e vi sono stati aggiunti dei ritornelli strumentali da opere coeve, soprattutto di Cavalli, che fanno da tessuto connettivo tra le varie scene. Ovviamente, per motivi storici di prassi operistica veneta, gli strumenti sono solo archi, a parti reali, e un ricchissimo basso continuo con quattro tiorbe, un arciliuto, una chitarra barocca, due cembali, un’arpa, un organo, che forse manco nei teatri veneziani si sognavano. Una veste timbrica molto suggestiva.

Le voci sono, quasi tutte, di prima scelta. E il canto si espande, finalmente, senza sirene di ambulanze e suoni fissi da brividi come se il gesso stridesse sulla lavagna. Il canto monteverdiano ritrova in questa esecuzione una dimensione teatrale, la dimensione che spetta di diritto a una lingua come la nostra, il toscano aulico adottato da letterati, riferentisi a Francesco Petrarca soprattutto, e che nel Seicento inventarono dei libretti straordinari, come quello dell’Incoronazione di Poppea di Giovanni Francesco Busenello. Ma è meglio che si parli d’ora in poi del Nerone, perché L’incoronazione di Poppea sarebbe il sottotitolo, in realtà. Si diceva del canto. Il lavoro di cesello fatto da Cavina e seguito dalla maggior parte dei cantanti, soprattutto quelli d’origine italiana, ha fatto volar via anni e anni di noia auditiva, dopo recitativi eseguiti un po’ troppo superficialmente senza una coscienza fonetica realmente approfondita, senza una coscienza della prosodia italiana, del fonema e dell’importanza dei rafforzamenti fonosintattici, di preziosismi linguistici barocchi, in nome di un asettico “stile” che in realtà di teatrale aveva realmente poco. Il suono, ricco, bello, scorrevole, che Cavina ha ottenuto dalla maggior parte del cast e dagli strumenti invita ad ascoltare l’opera nel suo svolgimento colla suspense del “e cosa faranno adesso?”, che per un’opera della durata di diverse ore, e di tre CD, non è affatto poco. Il senso della teatralità pervade i cantanti fin dalle prime battute della Fortuna, una sontuosa Pamela Lucciarini in gran forma, che con grinta spavalda già fa presagire bene. Ritroviamo la medesima nel successivo ruolo di Damigella, notevole anche in quello. I cantanti tolgono le battute l’uno all’altro, senza aspettare il compimento della semibreve finale delle frasi, che lascerebbe un buco teatrale e che alla lunga formerebbe, appunto, la noia, e incalzano nello sviluppo del dramma, senza lasciare spazio a indugi.
La scelta del tempo del primo intervento di Ottone, la superba Josè Maria Lo Monaco, accelera la tensione amorosa e vorticosa dell’incertezza del personaggio, in ismanie erotiche verso la donna più corteggiata dell’Impero, e pupa del capo. Ma proprio perché pupa del capo, bella e impossibile. La Lo Monaco ci offre fin dal primo momento la passione, il fuoco, con un colore vocale che avvolge e che, strano effetto, proietta in una dimensione atemporale, almeno a me è sembrato di stare lì, dentro il dramma, al primo ascolto. Arrivano i due pretoriani, buffe espressioni di Mario Cecchetti e Giovanni Caccamo, all’altezza dei loro ruoli, e che ritroveremo in altre parti all’interno dell’opera. E finalmente la coppia imperiale: Nerone, una sublime Roberta Mameli, e Poppea, un’insinuante e sinuosa Emanuela Galli. In tutti i loro interventi le due artiste hanno dato un’enorme credibilità al proprio personaggio. Un’isterica e giovanile smania di potere e di tutto ciò che vi è connesso, dal possesso della vita degli altri, dallo spasmo erotico per la donna più sexy di Roma, dal capriccio totale e indisturbato che fa quasi sembrare Nerone un archetipo della Regina di Cuori di Alice, tagliate le vene a questo e a quello, il senato e il popolo che ci siano o non ci siano è lo stesso (come ricorda da vicino l’attualità romana!) ma, in tutto questo, assolutamente maschile, nonostante la voce femminile, splendida, della Mameli. E che si vuole di più? La Galli, dal canto suo, offriva la sensualità di una Poppea molto coquette, capace di fare arroventare il ferro e di sospendere al momento giusto, un’esperta cortigiana, con un canto persuasivo e carezzevole, esigente e smanioso anch’esso, una smania per il potere che è lontanissima dal vero amore, ma che dell’amore usa i mezzi persuasivi che ogni donna ha, dall’inizio della storia fino a oggi, dove le pupe del capo diventano ministri, oggi come allora, appunto. I duetti della coppia sono splendidi. Quello finale, Pur ti miro, a mano di Benedetto Ferrari (o di chissà chi...), una passacaglia tra le più sensuali mai scritte, trova in questo arrangiamento mai sentito, un po’ minimalista un po’ postmoderno inventato da Cavina, una dimensione di sospensione, e si ha voglia che continui, che non finisca mai più... che musica e che esecuzione!

Di gran pregio la voce di Raffaele Costantini, un Seneca autorevole e con accenti assai pertinenti, un po’ il grillo parlante che sa che finirà schiacciato dal potere che egli stesso ha, ad ogni modo, alimentato. Il suo fraseggio quasi religioso, accompagnato talvolta da un organo, ha il sapore e il corpo delle lapidi colle massime scolpite, in dialogo pressante e richiedente un’obbedienza che non verrà mai da una generazione insolente e che ha fatto della prepotenza la sua chiave d’interpretazione del mondo. Suggestivo il momento arcaico della scena dei familiari di Seneca, piccola gemma madrigalistica incastonata in un melodramma a fosche tinte. L’incauta e innamorata matrona Drusilla è Francesca Cassinari (anche Virtù, nel prologo), anch’essa perfettamente inserita in questo cast ben scelto, che ha reso l’entusiasmo di Felice cor mio e il patetismo delle frasi successive, al momento dell’accusa di tentato omicidio di Poppea, con partecipazione e un accurato studio del testo. La coppia esiliata, Ottone e Drusilla, contraltare alla coppia imperiale, assume in quest’esecuzione uno spessore più teatrale che in altre esecuzioni, certamente grazie agli interpreti e a Cavina, cantante egli stesso e che conosce bene le dinamiche della voce e degli affetti nel barocco musicale italiano.
Valletto, Alena Dantcheva, presente anche nel ruolo di Amore, danzava colla voce, ogni tanto anche non eseguendo qualche passo alla perfezione ma senza inciampare. L’imperatrice tradita e offesa, Ottavia, è Xenia Meijer, che, se ha dato prova di una vocalità assai melodrammatica, con una non comune proprietà ad accentuare la drammaticità a piacere, ogni tanto aveva qualche suono non perfettamente a posto, ma è voler trovare il pelo nell’uovo. Disprezzata regina è di un’intensità convincente, dolente e rabbiosa, incapace di accettare fino in fondo una condizione femminile svantaggiosa comunque in un mondo dominato dal maschio, imperatore, per di più, per cui equivalente alla divinità onnipotente (come ricorda da vicino, anche qui, le aspirazioni di qualcuno della nostra attualità, eh?). E ottimo anche il tenore Makoto Sakurada, la Nutrice di Ottavia, ben istruito e spiritoso, con ottimo controllo dei propri mezzi vocali. Chi invece, o per scelta sua, o per scelta di altri, ci pare proprio fuori strada è il tenore Ian Honeyman, che se ha voluto accentuare la volgarità del personaggio Arnalta, in realtà non ha fatto altro che starnazzare senza alcuna grazia interna, un po’ alla rinfusa, come se avesse voluto rigovernare nel suo magazzino vocale sortendo ora questo ora quell’effetto, ma assolutamente scissi da un’organizzazione del suo strumento. I passaggi dalla voce piena al falsetto risultano assai precari, così come spesso l’intonazione, e ne soffrono particolarmente brani sul fiato come Oblivion soave, uno dei più lacunosi da questo punto di vista. Forse in scena avrà reso bene, non so, però la registrazione non gli rende ragione e il risultato, alla fine, è come se frenasse l’azione; lo scorrimento della vicenda, se avveniva quasi naturalmente per tutti gli altri interpreti, a lui era alieno. Tutti gli altri ruoli minori sono, in questa registrazione, di buon livello, all’altezza del compito. Tutto sommato questo Nerone, colossale mosaico di interventi multipli e non sempre di certa paternità, registrato da La Venexiana nel 2009 e uscito quest’anno, mi azzardo a dire che è la migliore edizione in commercio... Come dicevo prima, per me la misura della filologia è la noia. E qui la noia è assai lontana.

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