Teatro Rossini: Sigismondo non giace più tra i ceppi e le ritorte.
(edizione critica di Paolo Pinamonti).
(replica del 15 agosto 2010)
(edizione critica di Paolo Pinamonti).
(replica del 15 agosto 2010)
Giosetta Guerra
Michieletto… Michieletto … lo sapevo che dovevo tenerti d’occhio! Ci hai dato una bella lezione di come deve essere un ospedale psichiatrico: luminoso, pulito, lineare, senza fronzoli, con medici e infermieri pronti e disponibili e chissà che poi qualcuno non rinsavisca, come succede a Sigismondo, impazzito per una scelta criminale contro la moglie e rinsavito per averla ritrovata.
Gli attacchi di follia di Sigismondo, re di Polonia, che esplodono in gridi animaleschi, la visione di pluri fantasmi con l’aspetto della moglie Aldimira, la presentazione che il librettista Giuseppe Foppa fa del re (“con tutto il disordine della più tetra fissazione e senza conoscimento… gira l’occhio stupidamente ed ascolta”) e del suo primo ministro Ladislao che non è tanto sano di mente, se, come Jago, trama sotto sotto contro il re e la regina, hanno dato a Damiano Michieletto l’idea di ambientare il primo atto di Sigismondo, dramma per musica in due atti di Gioachino Rossini, in un’ampia corsia d’un moderno nosocomio, tutta bianca, con alti finestroni, letti bianchi occupati da malati mentali con tic e deambulazione precaria, un tavolo centrale, dottori e infermiere che somministrano medicine. Sigismondo, scarmigliato, sguardo assente, dentro un camicione incolore, è trasportato su una sedia a rotelle. Anche il coro è formato da un branco di matti che crea un certo scompiglio. È vero che non si vedono gli appartamenti di Sigismondo, né la casa di Aldimira ai margini della foresta, ma per chi ha perso la ragione un posto vale l’altro ed è certo più salutare stare in ospedale.
Michieletto… Michieletto … lo sapevo che dovevo tenerti d’occhio! Ci hai dato una bella lezione di come deve essere un ospedale psichiatrico: luminoso, pulito, lineare, senza fronzoli, con medici e infermieri pronti e disponibili e chissà che poi qualcuno non rinsavisca, come succede a Sigismondo, impazzito per una scelta criminale contro la moglie e rinsavito per averla ritrovata.
Gli attacchi di follia di Sigismondo, re di Polonia, che esplodono in gridi animaleschi, la visione di pluri fantasmi con l’aspetto della moglie Aldimira, la presentazione che il librettista Giuseppe Foppa fa del re (“con tutto il disordine della più tetra fissazione e senza conoscimento… gira l’occhio stupidamente ed ascolta”) e del suo primo ministro Ladislao che non è tanto sano di mente, se, come Jago, trama sotto sotto contro il re e la regina, hanno dato a Damiano Michieletto l’idea di ambientare il primo atto di Sigismondo, dramma per musica in due atti di Gioachino Rossini, in un’ampia corsia d’un moderno nosocomio, tutta bianca, con alti finestroni, letti bianchi occupati da malati mentali con tic e deambulazione precaria, un tavolo centrale, dottori e infermiere che somministrano medicine. Sigismondo, scarmigliato, sguardo assente, dentro un camicione incolore, è trasportato su una sedia a rotelle. Anche il coro è formato da un branco di matti che crea un certo scompiglio. È vero che non si vedono gli appartamenti di Sigismondo, né la casa di Aldimira ai margini della foresta, ma per chi ha perso la ragione un posto vale l’altro ed è certo più salutare stare in ospedale.
Nel secondo atto le pareti diventano di legno marrone e i finestroni divengono vetrages, perché siamo in una sala del palazzo reale di Sigismondo, che fisicamente ha perso i connotati del folle ed è in abiti militari come tutti i coristi. Variando a vista la posizione degli arredi, l’ambiente assume l’aspetto di una sala consiliare, una sala da pranzo, una sorta di ufficio. E i matti? Son rimasti in ospedale? No, no! Quando ti sembra di averli seminati, te li vedi ricomparire sospettosi dietro le grandi finestre, che tentano di aprire anche graffiando i vetri, e pure il re alterna momenti di lucidità a momenti di grande insicurezza. Lo spettacolo è studiato e rifinito in ogni dettaglio e, se non sei un osservatore acuto, neanche ti accorgi che la naturalezza del risultato è l’insieme di una gran quantità di particolari. Gli allestimenti di Michieletto continuano a sbalordirti anche nel ricordo e ti lasciano una sensazione di freschezza. L’idea registica di Michieletto trova un valido sostegno in Paolo Fantin che realizza le scene, in Carla Teti che cura i costumi e in Alessandro Carletti, disegnatore delle luci: un quartetto doc, che riesce a darci in contemporanea la visione di ciò che accade in scena e di ciò che c’è e che succede al di fuori dell’ambiente scenico. Strabiliante. Ricordate l’anno scorso, in quella Scala di seta si vedeva addirittura ciò che accadeva sotto la finestra che si apriva sul fondale. Cioè si vedeva ciò che avveniva nella parte posteriore del palcoscenico sotto il livello del palcoscenico stesso. E anche in Sigismondo si vedono vari piani d’azione: la sala chiusa da pareti, un altro ambiente dietro, i corridoi laterali che vanno fino in fondo. Una magia di vetri e di specchi per dare una sensazione di ordine ad una casa di matti. Roba da matti! Mi piacerebbe veder lavorare questo team. Come regista Damiano Michieletto cura con precisione certosina lo studio dei personaggi e la preparazione attoriale degli interpreti, isola ed esalta le fobie dei malati mentali che gesticolano in modo ossessivo o convulsivo (Sigismondo ripete un informe gesto con le mani tremolanti e vede l’immagine triplicata della moglie, un matto si gratta la testa per tutta la serata).
Altra magia è stata la prova superba di Daniela Barcellona en travesti. Mai l’artista m’apparve sì brava sia nell’arte scenica sia nell’arte del canto. Quasi irriconoscibile nel primo atto nelle vesti informi di un personaggio difficile, estremo e teatralmente scomodo, interpreta col corpo (a volte contorto, a volte raggomitolato per terra, accanto alla gamba di un letto quasi a proteggersi), con le mani (che stringono un cuscino o cercano di togliersi qualcosa dalle dita), con lo sguardo carico di spavento e la faccia percorsa da brividi d’insicurezza, interpreta, dicevamo, le ossessioni, le allucinazioni, gli smarrimenti, le paure, le trepidazioni di un essere mentalmente disturbato. Bisogna vederla e si rimane sconvolti. Nel secondo atto invece prende forma l’uomo nella sua divisa militare di re e anche le criticità mentali appaiono attenuate ma non cancellate. Vocalmente è uscito tutto il mezzosoprano che è in lei, con suoni caldi e rotondi, acuti stratosferici, naturalezza d’emissione anche negli affondi, linea di canto perfetta con grande equilibrio tra i vari registri; la scrittura fiorita e complessa dell’aria di coloratura “Alma rea” seguita dalla cabaletta “Ah, se m’ ami, idol mio”, con la quale Sigismondo chiede perdono alla moglie ritrovata, è eseguita alla perfezione; la voce è solida ed è in un momento di grazia particolare, ma, a mio avviso, è anche la scrittura della partitura che non segue la comune routine rossiniana, anche se alcune parti sono come al solito reimpiegate, ha lunghe frasi musicali, assolutamente adatte alla vocalità del mezzosoprano, una tinta diversa dalle opere che la Barcellona ha interpretato en travesti. Olga Peretyatko (Aldimira che magicamente si moltiplica, prima in tailleur chiaro e cappello maschile e poi in abito bianco con cappellino) ha voce sopranile melodiosa, è una virtuosa con zona grave corposa e zona acuta perlacea, splendida tecnica d’ emissione con l’uso della messa di voce e dei filati. Antonino Siragusa esegue con incisività d’accento e proprietà stilistica gli ampi sbalzi delle arie di Ladislao, la voce chiara e asprigna è ben proiettata nel registro centrale, ma ha minor facilità del solito a svettare in tessitura acuta e sovracuta, dove i suoni sono ingolati. Andrea Concetti, nel duplice ruolo del medico Ulderico e del nobile polacco Zenovito, ha un bel modo di porgere una voce morbida, densa e scura. Manuela Bisceglie, come Anagilda, è un sopranino corretto. Enea Scala nel ruolo di Radoski, confidente di Ladislao, è un bravo tenore.
Michele Mariotti, al debutto nella sua città, dirige con mano leggera l’Orchestra e il Coro del Teatro Comunale di Bologna (preparato da Paolo Vero) e contribuisce al successo di questo spettacolo, che non ci aspettavamo così ben fatto e con tanta bella musica che spesso allenta le tensioni, che ha trasparenze e leggerezze quasi sinfoniche e/o pastorali, delicati duetti carichi di poesia, brevi intermezzi danzanti, oltre al frizzo del crescendo rossiniano. Un’opera da rivedere così com’è rinata a Pesaro. sono sempre stati garanzia al ROF di impegno e qualità, garanzia pienamente soddisfatta anche in questa occasione.
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