Foto: Andrea Sacchi KS - Stresa Festival; Gianandrea Noseda / European Youth Symphony Orchestra;Franz Welser-Möst / The Cleveland Orchestra
Massimo Viazzo
Massimo Viazzo
Sarà per l’effervescenza contagiosa che traboccava dai giovani strumentisti della European Union Youth Orchestra, compagine con ormai più di trent’anni di storia alle spalle, oppure per l’inesauribile dedizione di Gianandrea Noseda (direttore artistico dello Stresa Festival da due lustri), il cui travolgente mix di sofferenza ed esaltazione si scioglieva in focosa vertigine, ma una Patetica così era da tempo che non la si ascoltava. Noseda, appassionato conoscitore del repertorio russo (e tra qualche settimana un suo attesissimo Boris inaugurerà la stagione del Teatro Regio di Torino), già dalle prime battute ci faceva intuire che il viaggio che si stava per intraprendere non poteva che condurre negli abissi più foschi. Puro fatalismo, quindi, come è d’altronde connaturato al capolavoro čajkovskijano, testamento spirituale del suo tormentato autore. Il Finale, affrontato con cupo realismo, si imponeva così come nucleo emotivo dell’opera, prospettiva ultima da cui rivivere in angoscianti flashback gli altri tre movimenti. La prima parte della serata era iniziata con il raro Prologo sinfonico “Bianca da Molena” di Mieczyslaw Karlowicz, talento polacco morto nel 1909 a soli 33 anni. Noseda esaltava le perorazioni tardo romantiche, quasi parossistiche, connaturate a questa pagina restituendocela con gagliardia. E anche l’estratto da Il Giocatore di Prokof’ev suonava entusiasmante per esuberanza ritmica, fraseggio tagliente, suggestione drammatica. Una Sinfonia da La Forza del Destino al calor bianco, come bis, coronava la serata.
Tutt’altra musica il giorno successivo nella Chiesa del SS. Crocifisso del Collegio Rosmini, luogo deputato, da qualche anno, all’esecuzione integrale di quel monumento sommo che è il corpus delle opere per violino solo di Johann Sebastian Bach. Thomas Zehetmair, che ha suonato a memoria, ha letteralmente strabiliato il pubblico con un’esecuzione di assoluta referenza caratterizzata da concezione rigorosa, precisione nell’intonazione ed affascinante gioco timbrico-dinamico. Impugnando il suo preziosissimo Stradivari il violinista tedesco ha saputo proiettare gli arabeschi bachiani in uno spazio atemporale tale da restituirceli assoluti, sbalzandoli con vigore, ma trovando anche morbidezze inaudite. Zehetmair ha sfoggiato un virtuosismo smagliante, mai autocelebrativo, un chiaro senso del contrappunto (la fantasmagorica Fuga dalla Sonata n. 3 ha lasciato tutti senza fiato!) avvincendo per eloquenza ed espressività. Un vero e proprio tour de force che ha lasciato un segno profondo sui presenti.
Onore al merito dello Stresa Festival essersi accaparrata The Cleveland Orchestra, la prima orchestra americana (e secondo gli addetti ai lavori, come aveva ricordato Gianandrea Noseda presentandola in conferenza stampa, addirittura la prima al mondo per abnegazione e duttilità). Il fatto di essere stata sempre guidata da direttori europei l’ha resa così familiare nei confronti del nostro repertorio da renderne le interpretazioni spesso raccomandabili. Franz Welser-Möst, il suo attuale direttore musicale, la dirige con eleganza, garbo, trasparenza. E così la Tragica di Schubert (che non è, poi, così tragica) suonava lieve, scorrevole. Le increspature del fraseggio, impercettibilmente misurate e le morbidezze timbriche ce la restituivano limpida, serena. Welser-Möst ha azzeccato del tutto la cifra stilistica di questa pagina in cui Schubert pare esprimersi in terza persona, non snaturandone gli esiti con soggettivazioni fuori luogo. La Cleveland saliva, poi, in cattedra nella seconda parte del concerto. Ein Heldenleben di Richard Strauss non solo ci mostrava una compagine virtuosisticamente impeccabile, ma ad entusiasmare era la qualità del suono sempre pieno e rotondo. E così i clangori del poema sinfonico straussiano, monumento al proprio narcisismo, sembravano quasi smaterializzarsi sotto una bacchetta attentissima a non deragliare e costantemente impegnata ad asciugare la partitura lasciandone decantare la sola essenza musicale.
Tutt’altra musica il giorno successivo nella Chiesa del SS. Crocifisso del Collegio Rosmini, luogo deputato, da qualche anno, all’esecuzione integrale di quel monumento sommo che è il corpus delle opere per violino solo di Johann Sebastian Bach. Thomas Zehetmair, che ha suonato a memoria, ha letteralmente strabiliato il pubblico con un’esecuzione di assoluta referenza caratterizzata da concezione rigorosa, precisione nell’intonazione ed affascinante gioco timbrico-dinamico. Impugnando il suo preziosissimo Stradivari il violinista tedesco ha saputo proiettare gli arabeschi bachiani in uno spazio atemporale tale da restituirceli assoluti, sbalzandoli con vigore, ma trovando anche morbidezze inaudite. Zehetmair ha sfoggiato un virtuosismo smagliante, mai autocelebrativo, un chiaro senso del contrappunto (la fantasmagorica Fuga dalla Sonata n. 3 ha lasciato tutti senza fiato!) avvincendo per eloquenza ed espressività. Un vero e proprio tour de force che ha lasciato un segno profondo sui presenti.
Onore al merito dello Stresa Festival essersi accaparrata The Cleveland Orchestra, la prima orchestra americana (e secondo gli addetti ai lavori, come aveva ricordato Gianandrea Noseda presentandola in conferenza stampa, addirittura la prima al mondo per abnegazione e duttilità). Il fatto di essere stata sempre guidata da direttori europei l’ha resa così familiare nei confronti del nostro repertorio da renderne le interpretazioni spesso raccomandabili. Franz Welser-Möst, il suo attuale direttore musicale, la dirige con eleganza, garbo, trasparenza. E così la Tragica di Schubert (che non è, poi, così tragica) suonava lieve, scorrevole. Le increspature del fraseggio, impercettibilmente misurate e le morbidezze timbriche ce la restituivano limpida, serena. Welser-Möst ha azzeccato del tutto la cifra stilistica di questa pagina in cui Schubert pare esprimersi in terza persona, non snaturandone gli esiti con soggettivazioni fuori luogo. La Cleveland saliva, poi, in cattedra nella seconda parte del concerto. Ein Heldenleben di Richard Strauss non solo ci mostrava una compagine virtuosisticamente impeccabile, ma ad entusiasmare era la qualità del suono sempre pieno e rotondo. E così i clangori del poema sinfonico straussiano, monumento al proprio narcisismo, sembravano quasi smaterializzarsi sotto una bacchetta attentissima a non deragliare e costantemente impegnata ad asciugare la partitura lasciandone decantare la sola essenza musicale.
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