Athos Tromboni
ROVIGO - Il Teatro Sociale ha inaugurato la stagione 2011 con una bella edizione di Madama Butterfy di Giacomo Puccini. L'allestimento, proveniente dal Teatro Comunale di Bologna, ha dato la possibilità ad alcuni promettenti giovani, vincitori del 40° concorso "Toti Dal Monte", di confrontarsi con il capolavoro pucciniano. I selezionati del concorso erano il soprano Yasko Sato, giapponese (Cio-Cio-San), il mezzosoprano Evgeniya Rakova, russa (Suzuki), il tenore Eduardo Hurtado Rampoldi, nativo di Firenze (Goro), mentre il baritono argentino Gonzalo Ezequiel Moya (Sharpless) ha dato forfait venendo sostituito dall'affidabile Elia Fabian. La prestazione di quei giovani selezionati del concorso è andata oltre le aspettative, dando soddisfazione al pubblico che li ha lungamente applauditi e gratificando la produzione. Completavano il cast il tenore Giuseppe Talamo (Pinkerton), il basso Riccardo Ferrari (Zio Bonzo) e ancora Gilberto Mulargia (Yamadori), Chiara Brunello (Kate), Gianluca Tumino (Commissario imperiale), Sandra Pozzati (Madre), Alessandra Cantin (Cugina), Silvana Benetti (Zia), Riccardo Ambrosi (Ufficiale del registro), Mauro Scalzini (Yakusidè) e la piccola Giulia Quaglio (Dolore). Abbiamo aperto la nostra corrispondenza da Rovigo con l'elenco del cast, pura cronaca, perché è lodevole il risultato conseguito dai singoli in una produzione che ha reso tattile il clima del collettivo. Certo, hanno contribuito i veterani, ottimo il Sharpless di Fabian chiamato all'ultimo momento e andato in scena dopo una sola prova; e di grande effetto - ma ben controllato - il Bonzo di Ferrari. Non ci dilunghiamo sulla prestazione dei singoli, tutti bravi, se non per dire che la protagonista, Yasko Sato, ha una quasi perfetta accentazione italiana e la sua mimica lascia intendere che conosce il significato intimo delle parole e delle frasi che sta cantando. Il significato intimo, sottolineiamo, cioè il pulsare delle emozioni che stanno dentro il testo. Non sempre è così con i cantanti dell'estremo Oriente, ai quali spesso sfugge il pathos della parte, preoccupati (... e bravissimi) a sciorinare le note in tono e gli acuti, più che a interpretare. Affrontiamo, invece, più dettagliatamente la parte registica e quella direttoriale. Il regista era Fabio Ceresa, giovane pure lui, ha fatto recitare molto bene i cantanti e ha condotto con gesto sicuro lo svolgimento della messinscena. Una lettura molto tradizionale, qualcuno ha detto. No. La tradizione era sì presente (se il libretto dice che l'ingresso di Butterfly è ritardato e comincia cantando fuori scena prima di apparire, così come lo Zio Bonzo, Ceresa pretende che questo avvenga. Dio gliene renda merito!) ma innovata da piccole azioni affidate ai comprimari e al coro, azioni che assumono valore di simboli e interpretano il colore locale (il Giappone d'inizio Novecento) secondo una moderna concezione della drammaturgia operistica, traguardante più la libertà formale della danza che il plasticismo della prosa. E poi "stacca" la Scena I del secondo atto dalla Scena II, calando il sipario dopo la melodia del coro a bocca chiusa e riaprendolo dopo l'esecuzione dell'introduzione sinfonica. Nella versione originale, quella voluta da Puccini, tutto il lungo interludio (coro a bocca chiusa e sinfonia) era eseguito a scena aperta. E quasi tutti i registi di ieri e di oggi la vogliono così, per raccontare su quella musica le visioni notturne di Cio-Cio-San, le paure, l'attesa, i tormenti del dubbio, i fantasmi dell'angoscia. Ceresa tiene chiuso il sipario, dando ulteriore prova di una regia non autoreferenziale; e non significa niente che questo sipario consenta il cambio scena: lo spostamento delle poche suppellettili poteva essere fatto a scena aperta, sfruttando - anzi - proprio il cambio per dare maggiore pregnanza alle visioni notturne di Butterfly, come fanno altri registi. Dove sta il bello?
Il regista, con il contributo del direttore Nicola Marasco sul podio di una buona (in questa circostanza) Orchestra Regionale Filarmonia Veneta lascia alla musica quel compito narrativo che né semeiotica né semantica riusciranno mai a rappresentare né a spiegare compiutamente, trattando delle emozioni in musica. E Marasco compie l'azione più splendida di tutta l'opera, dirige, concerta, suona. Sembra una banalità, ma è proprio davanti a quel sipario chiuso, con una sinfonia che basta da sola a illuminare l'intera serata a teatro che ci convinciamo una volta di più che Puccini vale Mahler, il suo maggior detrattore, e che non c'è scarto di bellezza fra il massimo capolavoro mahleriano (Das Lied von der Erde, il Canto della terra) e questa musica del maestro lucchese, certo l'apice più alto di tutte le musiche che Puccini abbia mai composto per l'opera o per la liturgia. E ci accorgiamo che quel momento musicale, orbo d'immagini e privato di drammaturgie oniriche, proprio quel momento, davanti a un sipario chiuso, con l'ampio gesto del direttore, la sua figura stagliata sul podio, i fremiti della bacchetta, quel ripiegarsi e rialzarsi in ampi gesti d'invito ai violoncelli, ai violini, alle viole, agli strumentini, quel tempo così perfetto per una melodia che strugge il sangue, quel respiro rattenuto e poi calibrato sul suono dei suoi orchestrali, i legni, gli ottoni, i contrabbassi, l'arpa, i piatti, strumenti "operai" dell'orchestra (come li definisce Gianandrea Noseda), ebbene quel momento lì - proprio perché nudo d'orpelli - è la perfetta premonizione del dramma che sta per compiersi, "due cose potrei fare / tornar a divertire la gente col cantare / oppur, meglio, morire".
Nicola Marasco era partito, all'inizio del primo atto e fino a tutto il dialogo fra Pinkerton e Sharpless, con volumi orchestrali squilibrati rispetto al palcoscenico, tanto che le voci sembravano non correre, poi (non sappiamo quanto abbia sudato, ma ha sicuramente faticato) ha trovato il giusto equilibrio fra lo strumentale e il canto, aggiustando le dinamiche ed anche il tempo metronomico, così la sua concertazione si è chiusa al meglio. Ha strameritato i lunghi applausi attribuitigli dal pubblico. Ceresa ha fatto un ottimo lavoro, già lo abbiamo detto, ma vogliamo ulteriormente giustificare il nostro giudizio critico: ci sono momenti nell'opera (in tutte le opere, da Wagner in poi) dove la musica diventa una sorta di colonna sonora, accentazione funzionale della drammaturgia, niente di più. Insomma un po' noiosetta, un po' di circostanza, un po' di passaggio, perché deve accompagnare il recitativo (cioè l'azione che si svolge e collega la sospensione lirica di un' aria con un' altra, o con un duetto, o un concertato). Se il regista non indovina il movimento o non trova il gesto scenico appropriato da applicare in quella fase dell'opera, in platea s'accendono gli sbadigli, si stropicciano i piedi, si cambia posizione sulla poltrona in attesa dell'aria o del duetto, in attesa cioè della melodia distesa e intrigante. Quando la musica si fa semplice colonna sonora, il regista, se è bravo, deve inventare quella drammaturgia che non è profusa nella musica stessa e forse neanche nel testo. Nella Madama Butterfly allestita a Rovigo, Fabio Ceresa ha fatto centro proprio qui: siamo al finale della Scena I del secondo atto, tutti aspettiamo il coro a bocca chiusa, ci attrezziamo a sopportare il dialogo fra Suzuki e Cio-Cio-San mentre spargono i fiori che dovranno accogliere, l'indomani mattina, l'arrivo di Pinkerton. Sappiamo che, tanto, è una fase di passaggio, un recitativo mascherato da duetto; per questo la nostra attenzione può assopirsi, la musica è così avara di note qui e oltretutto è dissonante, di sapore pentatonico, possiamo concedere una pausa alla concentrazione. Invece non succede, il regista indovina la danza delle due donne, disegna gesti e passi con calligrafica attenzione, mostra una commovente sensibilità; e poi il direttore è così misurato nelle dinamiche; e l'orchestra così docile e ubbidiente... la nostra attenzione si risveglia, si volge in curiosità, torna ad essere concentrazione, per farsi infine piacere estetico. Merito del regista (Dio gliene renda merito di nuovo!). Come dire: metti Ceresa e Marasco insieme e vinci. Una pregevole Madama Butterfly, dunque, cui hanno contribuito i bei costumi di Massimo Carlotto, le sapienti luci di Roberto Lunari e le scene essenziali ma efficaci della trinomata Giada Tiana Claudia Abiendi. Applausi del pubblico prolungati e calorosi al termine dello spettacolo, anche al Coro Lirico Veneto preparato da Giuliano Fracasso; ma a noi quel coro non ci ha entusiasmato.
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