Janáček compone, Chéreau umanizza
Massimo Viazzo
E’ umanissimo il mondo dei campi di prigionia nella visione di Patrice Chéreau. Il regista francese in questo spettacolo - creato ad Aix-en-Provence due anni e mezzo fa e coprodotto, tra l’altro, proprio dal teatro milanese - realizza un capolavoro di intensità psicologica fuori dal comune riuscendo a rendere avvincente un’opera sostanzialmente senza trama. L’ambientazione è tutto sommato atemporale con alte pareti geometriche, incombenti (tipiche dell’estetica del collaboratore di sempre Richard Peduzzi) delimitanti uno spazio scenico mai invasivo. Tre momenti da ricordare: la pioggia di rifiuti (mai così attuale) che sigla il passaggio dal primo al secondo atto, l’efficacissima pantomima del secondo atto straniante e malinconica, e l’aquila di legno sostenuta dai forzati che si libra in un volo catartico al termine dell’opera. Da una casa di morti racconta un serie di vicende sostanzialmente legate al passato dei prigionieri, calate nella meccanica ripetitività dei gesti quotidiani della vita del campo, legate tra loro da un esilissimo filo conduttore e che si coagulano in tre superbi monologhi, uno per atto, veri microdrammi di energica sostanza musicale. Ma tutto il lavoro è pervaso da un fremito inarrestabile, da una vigoria franca, da una forza espressiva divorante. Esa-Pekka Salonen sfodera una vitalità ritmica perseguita con pertinacia fin dalle prime battute, un controllo pressoché infallibile degli impasti timbrici ed un passo teatrale travolgente. Il direttore finlandese (al suo debutto in una produzione operistica nel massimo teatro milanese) predilige una certa stringatezza nell’incedere senza venir meno la cura delle dinamiche e, non ultimo, la ricerca dell’eufonia: tutto suona affilato, tagliente, aggressivo, ma mai cattivo, in un’esecuzione più mossa, più chiaroscurata rispetto a quella originale e cartesiana realizzata da Pierre Boulez nel 2007.
E mai come nell’ultimo capolavoro di Leóš Janáček il lavoro d’équipe paga! Non è solo per merito di Chéreau che i ritratti dei carcerati restano impressi nella memoria. Come dimenticare, per esempio, la demenza di Skuratov (un tarantolato John Mark Ainsley), l’alienazione amarissima di Filka (un aggressivo Stefan Margita) o la gagliardia di Šiškov (seducente il morbidissimo canto di Peter Mattei) e poi ancora la nobiltà di Gorjančikov (un elegante Willard White) o l’innocenza di Aljeja (un Eric Stoklossa davvero commovente) se anche il cast, vocalmente, non fosse stato di formidabile aderenza al dettato drammaturgico? E non ultimo è da sottolineare la prova di grande compattezza, timbricamente scurissima, del Coro del Teatro alla Scala, in forma smagliante. Insomma uno spettacolo vincente!
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