Massimo Crispi
Ci sono poche occasioni, nella produzione operistica nel secondo Novecento, che un’opera abbia un tale successo da diventare, come si dice, di repertorio. Certo, magari non sarà rappresentata tante volte quanto la Tosca o il Barbiere di Siviglia ma ha comunque una sua dignità riconosciuta e, almeno in Italia, ha vantato una serie di riprese storiche, perfino una registrazione televisiva e discografica, in un’epoca in cui la nostra tv di stato produceva, cosa che suona incredibile e anacronistica oggi, opere intere, così in video come in disco! Quest’opera è “Il cappello di paglia di Firenze” di Nino Rota, compositore nostrano spesso snobbato perché “melodico”, troppo facile all’ascolto, e messo in ombra dai vari compositoroidi intellettualoidi che nel nome del melodicidio e della non comunicazione agitavano alto il vessillo della musica “impegnata”… Altri tempi, per fortuna. La Storia, alla fine, presenta il conto e dà ragione a Rota e al suo delizioso mondo “disimpegnato”, rendendogli il successo che merita sulle scene sacre dei teatri d’opera mentre un’eclisse totale oscura quasi tutte le altre opere dei coevi compositoroidi. Non si deve dimenticare, infatti, che Rota il successo lo aveva ottenuto pienamente prima e dopo “Il cappello di paglia”, colle sue colonne sonore dal carattere tipicamente italiano, grottesco, circense, nostalgico, dei film di Fellini e Visconti, Castellani e Zampa, Soldati e Monicelli, Wertmüller e Zeffirelli, Coppola e molti altri ancora, autentica star della celluloide, una delle poche nel campo musicale autoctono. Ebbe anche un Oscar per la musica da film, nel 1975. Ovviamente, in un mondo bigotto e provinciale come quello italiano, la musica da film era come una sorellastra minore, spuria, e per questo un compositore come Rota rimase a lungo snobbato dal mondo della classica. Compose anche undici opere, Rota, delle quali, però, non resta quasi traccia in ciò che viene chiamato, come si diceva all’inizio di quest’articolo, repertorio. Unica eccezione: “Il cappello di paglia di Firenze”. Io sono convinto che, prima o poi, la Storia consacrerà alla ripresa sulle scene diverse altre sue opere, anche se questa è, obiettivamente, quella più travolgente. D’altro canto, se oggi si rimette in scena una quantità inverosimile di opere barocche che al loro tempo furono eseguite una sola volta e poi basta, ci sono speranze anche per Rota, in un futuro remoto! La cifra che ha contribuito al successo di quest’autentico gioiello del teatro musicale del secolo scorso è una virtù che pochissimi hanno e che Rota possedeva in gran copia: la levità. Già la scelta del soggetto, amabilmente anacronistico, della commedia borghese degli equivoci di Eugène Labiche e Marc Michel è indicativa del mondo estetico e nostalgico di Rota, che ne ha curato il libretto insieme alla madre Ernesta. E la lingua scelta per questo libretto, dove le frequenti rime baciate hanno un effetto esilarante, quasi cabarettistico pur strizzando l’occhio a Guido Gozzano, altro grande poeta della leggerezza, è un idioma forbito, denso, pieno di rimandi, scorrevole, musicale: tutto ciò che occorre a un libretto d’opera, per l’appunto, dove già il verso è musica e ritmo. E il percorso comico di quest’opera lascia senza fiato pubblico e artisti, i quali si rincorrono continuamente in situazioni che entrano una dentro l’altra, nella tradizione dell’operetta francese e viennese, mentre la musica rimanda, di tanto in tanto e affettuosamente, alle strette rossiniane e donizettiane della nostra tradizione, quasi fosse una strizzatina d’occhio al temps perdu… Insomma: auguriamo a quest’opera ancora una lunga vita e fortuna, come merita. L’allestimento del Teatro del Maggio Fiorentino era una nuova messa in scena che prevedeva la presenza di giovani artisti perfezionatisi alle scuole delle Maggio Fiorentino Formazione e Scuola dell’Opera Italiana del Comunale di Bologna, e di scenografi, costumisti, illuminotecnici provenienti da altri corsi formativi del teatro, con dei risultati alterni ma comunque gradevoli.Tutto si svolgeva su una gigantesca cartolina postale incorniciata e inclinata (scene di Lorenzo Cutùli, che ha firmato anche i costumi) che rappresentava Parigi nel 1850, il luogo dell’azione, in realtà spostato quasi un secolo dopo a giudicare dai costumi e dagli affiche che formavano una scenografia fissa, troppo, che limitava enormemente l’azione dei personaggi e non definiva gli spazi dei vari quadri. Inoltre, i costumi, carini e colorati, erano oppressi da un eccesso di colore delle scenografie verticali, ossia proprio i suddetti manifesti, sfondo costante di ogni azione. Le stanze, gli spazi erano intuiti al di là di botole, in un continuo aprire e chiudere, dalle quali ogni tanto emergevano o si rintanavano i personaggi, e, se può essere carino solo per un atto, per tutta l’opera risulta assai greve. Soprattutto, avendo a disposizione un palcoscenico immenso come quello fiorentino, risultava incomprensibile, se non addirittura controproducente, porsi dei limiti così ristretti per far agire un esercito di cantanti, coristi, figuranti che, peraltro tutti molto bravi nel delineare i loro caratteri, alla fine restavano come intrappolati negli angusti confini dello spazio loro assegnato. Anche l’illuminazione, pur con qualche trovata carina, come illuminare di volta in volta gli invadenti affiche dei film, dei prodotti pubblicitari, degli spettacoli parigini, con un diretto riferimento alla situazioni in scena, quasi come una didascalia, soffriva della mancanza di definizione degli spazi e alla fine tutto risultava come una gabbia fastidiosa, dove, anziché espandersi, tutto veniva concentrato quasi per paura che potesse debordare e scappar via. La scena del negozio della modista, dove Fadinard corre per cercare il cappello di paglia per salvare l’onore di una signora un po’ allegra, era, per esempio, poco risolta, colle sartine sedute sulla cornice inclinata della felliniana cartolina: mancava totalmente quel sapore di negozio-alcova alla “Hello, Dolly”, per intenderci, luogo evocante fantasmi di femminilità da rivista fine Ottocento. Le masse, soprattutto quelle degli invitati al matrimonio di Fadinard e Elena, ma anche degli altri invitati, quelli del ricevimento della baronessa di Champigny, e che in quest’opera hanno un ruolo fondamentale, vagavano in spazi assolutamente senza barriere, depauperando in tal modo il valore dell’entrare e uscire da un luogo, topos fondamentale negli inseguimenti di quel tipo di teatro alla Feydeau, e si ammassavano dove potevano per non inciampare nei piani inclinati o invasi da suppellettili. Lodiamo, senza riserve, il tenore Filippo Adami, infaticabile e atletico Fadinard, sempre di corsa, sempre ironico e con dei tempi comici assolutamente da grande esperto della scena, che interagiva sempre con proprietà ora con questo ora con quella, in un vortice di situazioni sempre più incalzanti e buffe. Eccellenti la baronessa di Champigny, animata dalla convincente voce di mezzosoprano di Romina Tomasoni, capace di piegarla a sfumature da commedia musicale e di ironici atteggiamenti da superdiva del muto, con risultati assai apprezzabili, e Beaupertuis, il cornuto e beffato marito della nipote della baronessa, delineato dall’ottimo e sonoro Mauro Bonfanti, un cantattore perfetto per questo ruolo. Anaide, sua moglie, era la notevole Anna Maria Sarra, dalla pregevole voce vellutata. Salvatore Salvaggio ha reso il rustico personaggio di Nonancourt con una voce altrettanto rustica, scevra da qualsiasi finezza, ben sottolineando ogni gaffe e malinteso, mentre la figlia Elena, la sposina di Fadinard, era discretamente cantata da una infantile e argentina Lavinia Bini. All’altezza le altre parti di contorno e ottimo il coro di Piero Monti. La concertazione e le trovate timbriche dell’orchestra hanno funzionato benissimo con un continuo scambio di piani e di battute tra orchestra e palcoscenico grazie all’ottimo lavoro di Sergio Alapont.
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