Foto: Studio Amati Bacciardi
Massimo Viazzo
MOSE IN EGITTO (20 agosto 2011, Adriatic Arena, Pesaro)
Lo spettacolo che più ha fatto parlare di sé nell’edizione 2011 del Rossini Opera Festival – un’edizione di alto livello tale da collocare la manifestazione pesarese (a ragione!) fra le più ambite mete estive dei melomani di tutto il mondo, è stato senz’altro il Mosè in Egitto firmato da Graham Vick. Il regista inglese non ha effettuato soltanto un’attualizzazione degli eventi (qui le vicende bibliche perdevano la loro naturale collocazione spazio-temporale per assumere una dimensione universale su un palcoscenico suddiviso su più livelli), ma ha radicalizzato le sue scelte in un’ottica pacifista tout court in cui le colpe degli integralismi religiosi per lo più monoteisti, israeliano o islamico che fossero, venivano equamente distribuite. E’ chiaro che vedere Mosè con un kalashnikov in mano mentre intona la sublime Preghiera del Terzo Atto era un’immagine molto forte, ma l’idea di Vick di puntare il dito accusatorio senza fare distinzioni fra i “presunti” buoni o i “presunti” cattivi viene perseguita fino in fondo con grande coerenza per uno spettacolo di rara forza emotiva e di spessore spirituale. E mi sembrano veramente fuori luogo le lettere giunte ai giornali locali di alcuni ebrei presenti al Festival che si sono sentiti “offesi” da questa visione. Qui si tratta di fare arte, ma arte viva, appassionata e non avulsa dalla realtà. Bravo Graham Vick a scegliere, forse, la via più scomoda, che oltretutto sui palcoscenici italiani, spesso condizionati da un pubblico pigramente tradizionalista, pare ancora più scomoda. Ma questo allestimento entrerà di diritto nella storia del ROF ed è sperabile che venga ripreso nei prossimi anni, o almeno che raggiunga la via della registrazione video. E sì, perché anche la parte strettamente musicale era di ottimo livello, a cominciare dal Faraone granitico di Alex Esposito dalla dizione nitida e scolpita. Meno carismatico, ancorché corretto, il Mosè di Riccardo Zanellato, mentre la Elcia di Sonia Ganassi, pur struggente e appassionata, è parsa di emissione un po’ appesantita. Sicuro e incisivo Dmitry Korchak nel ruolo del principe Osiride, e molto preparati anche gli altri due tenori Enea Scala (Mambre) e Iijie Shi (Aronne). Roberto Abbado ha diretto con polso e rigore senza farsi ammaliare da facili abbandoni e puntando decisamente sulla continuità drammatica.
LA SCALA DI SETA (21 agosto 2011, Teatro Rossini, Pesaro)
La Scala di seta nell’allestimento di Damiano Michieletto era invece uno spettacolo già collaudato andato in scena qui a Pesaro due stagioni fa. Solo un cantante del vecchio cast compariva questa volta: si trattava di quello sul quale Michieletto aveva praticamente costruito tutto il suo spettacolo. Mi riferisco a Paolo Bordogna, qui nei panni di uno sbadato e spensierato servitore filippino attorno al quale ruotava tutta la vicenda. Ambientazione e costumi attuali infondevano vitalità ed esuberanza ad un intrigo che assomiglia molto a quello del Matrimonio segreto di Domenico Cimarosa (e anche per questo motivo alla première del 1812 al Teatro San Moisè di Venezia la farsa rossiniana non aveva avuto quel successo che meritava). Sul palcoscenico del Teatro Rossini viene montata una scena che rappresenta le camere di un appartamento moderno, il salotto, la cucina, il bagno..... Il pubblico, e qui sta la spiritosa trovata, può seguire lo sviluppo degli avvenimenti anche dall’alto in quanto il fondale è dotato di una parete riflettente. E le situazioni inventate dal giovane regista veneto erano spesso esilaranti, mai sboccate o volgari, e soprattutto sempre a tempo con la musica di Rossini, come a suo tempo aveva insegnato Jean-Pierre Ponnelle. Tutto il cast brillava così per proprietà vocali e recitazione spericolata, a cominciare proprio dallo spassosissimo Gemano di Paolo Bordogna, trionfatore della serata, ma senza dimenticare la spiritosa Giulia di Hila Baggio, il vulcanico Blansac di Simone Albergini, per il quale questa produzione recuperava la difficile Aria da concerto “Alle voci dell’amore”, e il tormentato Dorvil di Juan Francisco Gatell. Frizzante, spumeggiante la direzione di José Miguel Pérez-Sierra ben assecondato da un Orchestra Sinfonica G. Rossini in buonissima forma.
IL BARBIERE DI SIVIGLIA (22 agosto 2011, Teatro Rossini, Pesaro)
LA SCALA DI SETA (21 agosto 2011, Teatro Rossini, Pesaro)
La Scala di seta nell’allestimento di Damiano Michieletto era invece uno spettacolo già collaudato andato in scena qui a Pesaro due stagioni fa. Solo un cantante del vecchio cast compariva questa volta: si trattava di quello sul quale Michieletto aveva praticamente costruito tutto il suo spettacolo. Mi riferisco a Paolo Bordogna, qui nei panni di uno sbadato e spensierato servitore filippino attorno al quale ruotava tutta la vicenda. Ambientazione e costumi attuali infondevano vitalità ed esuberanza ad un intrigo che assomiglia molto a quello del Matrimonio segreto di Domenico Cimarosa (e anche per questo motivo alla première del 1812 al Teatro San Moisè di Venezia la farsa rossiniana non aveva avuto quel successo che meritava). Sul palcoscenico del Teatro Rossini viene montata una scena che rappresenta le camere di un appartamento moderno, il salotto, la cucina, il bagno..... Il pubblico, e qui sta la spiritosa trovata, può seguire lo sviluppo degli avvenimenti anche dall’alto in quanto il fondale è dotato di una parete riflettente. E le situazioni inventate dal giovane regista veneto erano spesso esilaranti, mai sboccate o volgari, e soprattutto sempre a tempo con la musica di Rossini, come a suo tempo aveva insegnato Jean-Pierre Ponnelle. Tutto il cast brillava così per proprietà vocali e recitazione spericolata, a cominciare proprio dallo spassosissimo Gemano di Paolo Bordogna, trionfatore della serata, ma senza dimenticare la spiritosa Giulia di Hila Baggio, il vulcanico Blansac di Simone Albergini, per il quale questa produzione recuperava la difficile Aria da concerto “Alle voci dell’amore”, e il tormentato Dorvil di Juan Francisco Gatell. Frizzante, spumeggiante la direzione di José Miguel Pérez-Sierra ben assecondato da un Orchestra Sinfonica G. Rossini in buonissima forma.
IL BARBIERE DI SIVIGLIA (22 agosto 2011, Teatro Rossini, Pesaro)
Alberto Zedda, direttore artistico del ROF, ha presentato al suo pubblico la nuova edizione critica del Barbiere di Siviglia pubblicata dalla Fondazione Rossini di Pesaro. Le differenze con la precedente non sono parse significative (qualche modifica testuale, qualche ritocco musicale), ma è soprattutto la presenza di un nuovo personaggio, la cameriera Lisa, ad attirare l’attenzione: Lisa, infatti, interviene nel Finale I (le sue battute sono sempre state affidate a Berta, pur cantando, Lisa, in una tessitura più grave). Per l’occasione si è pensato ad un’esecuzione in forma di concerto proprio per dar maggior risalto possibile alle qualità della partitura rossiniana. I cantanti hanno comunque effettuato le entrate e le uscite, e alcuni movimenti scenici, offrendo verità teatrale alla vicenda. Zedda ha mostrato grande sensibilità nel guidare la dinamica orchestra bolognese, ottenendo fluidità ritmica e brillantezza timbrica. L’ottantatreenne direttore milanese ha anche saputo assecondare i cantanti, in modo stilisticamente impeccabile, durante le loro gustosissime e funamboliche variazioni. Marianna Pizzolato ha interpretato una Rosina piacevole con voce di timbrica comunicativa, ma con qualche indecisione nella zona più acuta della tessitura. Franco, spavaldo, di buon volume il Figaro di Mario Cassi, dal suono rotondo e corposo. Adeguato Juan Francisco Gatell nei panni del Conte di Almaviva, che, soprattutto nei centri, è parso ricordare il fraseggio di Luigi Alva. Il debordante Bartolo di Nicola Alaimo, un baritono di voce chiara perfettamente a suo agio nel canto sillabato, ha saputo divertire il pubblico anche in qualità di una mimica molto personale, mentre Nicola Ulivieri ha accentuato i tratti furbeschi di Don Basilio con voce piena e risonante. Grandi applausi e ovazioni anche in Piazza del Popolo, dove l’opera è stata trasmessa su maxi-schermo.
Pier’Alli, il regista di Adelaide di Borgogna, opera dalle bellezze insospettate per la prima volta qui al ROF (la cui musica finirà in buona parte nel futuro Eduardo e Cristina a dimostrazione di quanto lo stesso Rossini tenesse in considerazione questa partitura) è parso più interessato alle proiezioni sul fondale del palcoscenico, lacustri e ferrigne, di militari e di fortezze, di marce e di cortei muliebri, indubbiamente suggestive ed eleganti (e non senza un tocco leggero di ironia e surrealismo), ma meno ai movimenti scenici dei cantanti. Ne scaturiva uno spettacolo di innegabile impatto visivo, ma teatralmente un po’ povero. Ci pensava un cast di prim’ordine, accompagnato con musicalità e finezza da Dmitri Jurowski alla guida del Coro e dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna (complessi impegnati con successo anche in Mosè e nel Barbiere), ad elettrizzare la recita. Jessica Pratt donava ad Adelaide un timbro adamantino, pastoso soprattutto nei centri, con facilità nella coloratura, privilegiando la vena più elegiaca della principessa prematuramente divenuta vedova. L’Ottone di Daniela Barcellona si imponeva per l’accento, eroico ma anche patetico, per la spericolatezza delle agilità, per la saldezza della linea. Nicola Ulivieri disegnava un Berengario di notevole spessore vocale, colore scuro e dizione scolpita e rotonda. Bogdan Mihai (Adelberto) risultava, invece, l’elemento debole del cast. Pur dimostrando una certa sicurezza nelle agilità e una indubbia musicalità, il timbro non particolarmente seducente, il volume flebile e una certa mancanza di squillo ne inficiavano la resa complessiva. A loro agio le parti di fianco e un plauso per la preziosa e fantasiosissima realizzazione dei recitativi al fortepiano: ebbene, non ci siamo quasi accorti che si trattava, nella loro totalità, “soltanto” di recitativi secchi.
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