Massimo Viazzo
Non si può scrivere del Ballo in
Maschera andato in scena al Teatro Regio di Torino senza iniziare da «lui», da
Riccardo Muti, demiurgo verdiano per eccellenza e specificamente in questa
nuova produzione straordinario modellatore di frasi musicali, cesellatore
instancabile di dettagli spesso sconosciuti, alla ricerca continua di quella «tinta»
(per usare il termine usato dallo stesso Verdi) che rende così unica
un’interpretazione tesissima, tutta luci e ombre, teatralmente vivida, e in
bilico continuo tra dramma e commedia, cosa d’altronde peculiare ad un titolo
verdiano come questo, originalissimo, a tratti sfuggente e pieno zeppo di perle
musicali. Muti rallenta i tempi e alleggerisce la trama orchestrale rispetto
alle altre interpretazioni, fatte in passato, dello stesso titolo (sentire ad
esempio il finale dell’atto primo). E che dire degli accompagnamenti mozartiani
agli interventi del paggio Oscar? Una vera delizia. Orchestra del Teatro Regio
sugli scudi quindi! Oggi, se ce n’era ancora bisogno, si è capito quanto sia
importante il tessuto orchestrale per la miglior resa dell'opera verdiana. E
d’altronde Muti ha sempre aborrito chi sostiene che per eseguire bene Verdi sia
sufficiente accompagnare i cantati. Il regista Andrea de Rosa, con le scene e
costumi approntati rispettivamente da Nicolas Bovey e Ilaria Ariemme, ha
impostato uno spettacolo per lo più tradizionale, ambientato in un palazzo del
‘700, con inserti più moderni (che forse hanno creato un po’ di confusione),
come ad esempio la definizione dell’antro di Ulrica, volutamente moderno con
l’indovina tratteggiata come una vera e propria attrazione della festa e
interpellata per mero divertimento degli astanti. De Rosa punta parecchio
sull’espediente della “maschera” indossata già all’inizio dell’opera
praticamente da tutti i personaggi. Certo, la maschera indica disinganno, dissimulazione,
come da libretto d’altronde, ma l’effetto finale del ballo conclusivo ad
esempio pare un po’ depotenziato. Alla lunga il senso di questa scelta
registica tende ad affievolirsi. E non convince appieno nemmeno la
realizzazione di un Riccardo di Warwick parente prossimo del libertino Duca di
Mantova, cosa intuibile all’inizio del primo atto. Il cast è parso omogeneo e
tutti hanno contribuito ad un buon risultato finale apprezzatissimo dal
pubblico che gremiva la sala. Piero Pretti ha cantato con eleganza e un certo
squillo anche se è mancato un poco il trasporto e l’emozione. Il suo Riccardo
pur non toccando le corde più profonde della passione è parso attento e a
tratti baldanzoso. Lidia Fridman ha tratteggiato una Amelia di bella timbrica
brunita con una voce ricca di suoni armonici nella zona medio bass della
tessitura. Corretta e solida, anche se sugli acuti la voce pareva meno corposa
ma non per questo meno sicura, ha mostrato sempre grande precisione
nell’affrontare anche le linee musicali più insidiose. Luca Micheletti ha dato
voce ad un Renato spontaneo, impulsivo e risoluto con qualche forzatura in alto
ma una timbrica rotonda e un accento franco. E poi Micheletti sa tenere la
scena come pochi. Di bell’impatto vocale la Ulrica di Alla Pozniak, anche se il
fraseggio non è parso proprio raffinatissimo, mentre Damiana Mizzi ha
interpretato Oscar con padronanza delle agilità, spigliatezza e dinamismo.
Ottime le parti di fianco: Sergio Vitale (Silvano), Daniel Giulianini e Luca
D’Amico (Samuel e Tom). Il Coro del Teatro Regio, infine, è stato diretto con
rigore stilistico da Ulisse Trabacchin.
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