Foto: Brescia&Amisano
Massimo Viazzo
E quindi la città di Metropolis, per intenderci quella del film capolavoro di Fritz Lang del 1927, si trova in Svizzera, sul lago dei Quattro Cantoni... E sì perché la regista Chiara Muti, figlia del celebre direttore d’orchestra, si è ispirata a Metropolis per creare un clima cupo e claustrofobico per il suo Guillaume Tell, il capolavoro rossiniano per la prima volta andato in scena al Teatro alla Scala nella sua versione originale in francese. Quindi niente montagne, niente boschi, niente laghi, né cascate, né ruscelli, con la natura solo evocata, in un allestimento con ambienti privi di luce, delimitati da alti palazzi cupi con pareti labirintiche e incombenti su un popolo soggiogato e oppresso dal potere, costretto in prigioni girevoli ubicate in un sottosuolo infelice e soffocante. Un'ambientazione collocata in un futuro distopico in cui per ammansire e manipolare le masse represse (considerazione oggi attualissima) si osservava sulla scena una massiccia presenza di tablet: il tablet, il dispositivo che sembra darti la libertà di avere tutto il mondo in palmo di mano, ma che in realtà controlla ogni tua mossa, ogni tuo movimento e ogni tuo pensiero. Ad apertura di sipario tutto appariva pressoché in bianco e nero, privo di qualsiasi colore. Si staglierà, più avanti nel corso dell’opera, solamente il rosso acceso dell’abito di Gesler personificazione demoniaca e infernale del male. Guillaume Tell alla fine sarà l’artefice della rinascita, spezzando le catene della schiavitù e ridando libertà al suo popolo, o forse più in generale all’uomo tout court. Chiara Muti, che ha sostenuto in fase di preparazione del nuovo allestimento che «Guillaume Tell è arciere e salvatore in senso biblico”, ha curato nei dettagli la narrazione riuscendo a perseguire l’dea fondante con coerenza e fluidità grazie anche agli ambienti efficacemente costruiti da Alessandro Camera, ai costumi appropriati disegnati da Ursula Patzak con le luci manovrate da Vincent Loguemare. E in tal senso lo sforzo della messinscena è stato apprezzabile, ma alla lunga, vista anche l’eccezionale durata dell’opera, l’azione diventava un po’ ripetitiva e a volte stucchevole. La presenza dei balletti, eseguiti pressoché integralmente, non ha poi aggiunto nulla alla fruizione dello spettacolo, anzi la loro realizzazione (curata da Silvia Giordano) è stata confusionaria e inconcludente. Senza contare, ed è questa forse la critica più appropriata, che la musica di Rossini evoca la natura e gli ampi spazi in modo così perentorio e debordante che la mancanza di questi si è percepita un po’ per tutta la durata dello spettacolo. Michele Mariotti ha saputo tenere in pugno l’ampia partitura senza cedimenti, ma anche senza facili concessioni ed effetti. Fin dall’attacco della celebre Sinfonia si è intuita la capacità del giovane direttore marchigiano di saper cesellare le frasi puntando su un fraseggio vivo e variegato: sensibile e intimo nei momenti più patetici, scattante e baldanzoso in quelli marziali e tempestosi. E’ parso che Mariotti avesse ben presente la visione d’assieme della monumentale partitura, cosa che gli ha permesso di dosare al meglio agogica e dinamiche. Michele Pertusi ha impersonato un Guillaume Tell emozionante dalla voce calda e timbrata e di musicalità sopraffina. Ma è soprattutto nell’accento delle parole e delle frasi che Pertusi si è distinto: nobiltà e fierezza, ma anche fragilità e umanità («Sois immobile»). Dmitry Korchak nei panni dell’esitante e tormentato Arnold ha mostrato squillo e buona proiezione vocale. La sua linea di canto è parsa sempre ben rifinita e la facilità nei molti passaggi in tessitura acuta e acutissima ha raggiunto l’apice in un «Amis, amis seconde ma vengeance» cantato con spavalderia e sfrontatezza. Salome Jicia è stata una Mathilde poco regale, di timbrica un po’ anonima e un fraseggio un po’ monocorde. Meglio nelle agilità della sua aria del terzo atto «Pour notre amour plus d’espérance», piuttosto che nelle parti più liriche. Da ricordare il diabolico e imponente Gesler di Luca Tittoto, il limpido e lirico Jemmy di Catherine Trottmann, la convincente Hedwige di Géraldine Chauvet, il maestoso Melchtal di Evgeny Stavinsky e soprattutto Dave Monaco che ha cantato l’impervia aria del pescatore Ruodi del primo atto «Accours dans ma nacelle» con estrema facilità e naturalezza. Appropriati anche Paul Grant (Leuthold), Nahuel Di Pierro (Walter Fürst) e Brayan Ávila Martinez (Rodolphe) e straordinario (come sempre!) il Coro del Teatro alla Scala diretto da Alberto Malazzi
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