Massimo Viazzo
Torna alla Scala quello che probabilmente è il dittico più famoso della storia dell’opera: Cavalleria Rusticana e Pagliacci. Giova ricordare che le due opere non erano nate per essere rappresentate insieme. Cavalleria Rusticana, atto unico di Pietro Mascagni, andò in scena per la prima volta al Teatro Costanzi di Roma nel 1890, mentre Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, due anni dopo al Teatro dal Verme di Milano. I due titoli forse più rappresentativi dell’opera verista italiana comparirono per la prima volta assieme nel 1893 al Metropolitan di New York e da allora hanno viaggiato felicemente in coppia. Il Teatro alla Scala recupera il fortunato allestimento curato dal regista Mario Martone (ottimamente ripreso da Federica Stefani) visto per la prima volta nel 2011 con Daniel Harding e ripreso nel 2015 sotto la direzione di Carlo Rizzi. Martone bonifica Cavalleria Rusticana da tutta una serie di convenzioni oleografiche e stereotipate che ne hanno caratterizzato da sempre la messa in scena. Su un palcoscenico quasi nudo (ci sono solo sedie, un altare e un grande crocifisso) Martone propone una sorta di sacra rappresentazione, a metà strada tra il sacro e il profano, nella quale il dramma si svolge in un clima da tragedia greca, con il coro seduto sulle sedie (anche dando le spalle al pubblico) che assiste allo spettacolo essendone parte integrante. Mario Martone vede Cavalleria Rusticana come una cerimonia rituale con un finale già scritto, in cui nessuno può cambiare l’ordine degli eventi: una vera discesa agli inferi. Più realismo invece si trova in Pagliacci ambientati in un luogo dimenticato da Dio, sotto un viadotto autostradale, tra roulotte, giocolieri e artisti da strada, tra degrado e sporcizia. E’ in questo microcosmo di diseredati che si consuma il dramma a tinte forti che ben conosciamo. Martone è attento a lavorare sui personaggi cercando sempre il rapporto diretto tra le emozioni e il pubblico, senza filtri. Purtroppo la bacchetta affidata a Giampaolo Bisanti ha deluso, così intrappolata in una tradizione interpretativa non troppo propensa al cesello, tra artifici sonori tendenti all’effetto (mai volgari, comunque), e un peso orchestrale a volte esagerato. A onor del vero bisogna comunque riconoscergli un passo teatrale convincente. Cast invece livello notevole! E come non iniziare scrivendo di Amartuvshin Enkhbat unico elemento del cast a cantare in entrambe le opere, come Alfio in Cavalleria e Tonio in Pagliacci. Il baritono mongolo padroneggia un vero e proprio fiume di voce che riesce comunque ad incanalare, quando occorre, in fraseggi più sottili e morbidi. Non ha mostrato solo i muscoli quindi, ma ha saputo ammorbidire e modulare la voce fraseggiando con grande musicalità. La sua potenza vocale oggi è fuori dal comune, davvero impressionante, ma anche la sua dizione e il suo accento si stanno costantemente rifinendo ponendolo ai vertici mondiali tra i baritoni del nostro tempo. Memorabile il Prologo dei Pagliacci, un grande momento di canto reso con energia, spavalderia ma anche sottigliezza, con l’uso di mezzevoci praticamente perfette grazie ad una impostazione vocale di prim’ordine. Saioa Hernández (sostituta dell’ultim’ora dell’indisposta Elīna Garanča) ha impersonato Santuzza, protagonista femminile di Cavalleria Rusticana. Il soprano madrileno ha cantato con passione, mostrando un registro vocale omogeneo in tutta la gamma, un colore accattivante e un accento ardente. La sua Santuzza ha convinto anche scenicamente. Accanto a lei Brian Jagde, Turiddu, ha mostrato le sue indubbie qualità di tenore drammatico esibendo uno squillo fuori dal comune, un accento infuocato e acuti sicurissimi e pieni. Il suo Addio alla mamma è stato un momento di grande elettricità e commozione. Francesca di Sauro ha impersonato una Lola ironica e sensuale con timbrica suadente e fraseggio adeguato. Elena Zilio, dall’alto della sua lunghissima carriera ed esperienza, ha tratteggiato una Mamma Lucia da antologia: ogni parola, ogni frase del suo canto suonavano penetranti come stilettate. Venendo all’opera di Leoncavallo, Nedda è stata impersonata da Irina Lungu che ha fornito un convincente prova sia vocale che attoriale. La sua voce lirica, vibrante e sfumata è parsa l’ideale per tratteggiare un personaggio non solo innamorato ma anche pronto a cambiar vita ad ogni costo, così imprigionata dalle catene di Canio, un Fabio Sartori gagliardo e allucinato, dal fraseggio febbrile, che ha mostrato di saper affrontare le zone più impervie della tessitura con svettante facilità. Dotato di voce granitica e potente ha anche mostrato di sapere trovare accenti emozionanti (Vesti la giubba) pur non contando su una grande fantasia interpretativa. Mattia Olivieri ha interpretato Silvio con voce ben impostata, timbrica rotonda e seducente, fraseggio rifinito per un personaggio che poche volte è emerso così pienamente in tutte le sue sfaccettature. In questo allestimento Silvio entra in scena su un auto di lusso, in giacca e cravatta, avvenente come non mai. È lui che promette a Nedda quel cambio di passo in una vita fino a quel momento monotona, oppressiva e senza prospettiva. Jinxhu Xiahou ha cantato l’elegante Serenata di Peppe con leggerezza. Notevole, infine l’apporto del Coro del Teatro alla Scala diretto da Alberto Malazzi, coro impegnatissimo in entrambe le opere.
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